giovedì 15 maggio 2014

Isabella di Morra. 1. Biografia e Sonetti

Isabella di Morra nacque a Favale, in Basilicata, da Giovan Michele e da Luisa Brancaccio, nel 1520 o negli anni immediatamente precedenti. Più anziani di Isabella furono i fratelli Marcantonio e Scipione (con quest’ultimo, il più dotato e precoce, ebbe in comune gli studi); più giovani Decio, Cesare, Fabio, Camillo e la sorella Porzia.
I Morra erano in possesso del feudo di Favale, in precedenza appartenuto ai Sanseverino principi di Salerno, sin dai primi anni del Cinquecento, quando ne divenne titolare Antonio, padre di Giovan Michele. Una ricostruzione complessiva della storia dei diversi rami dei Morra si legge nella Familiae nobilissimae de Morra historia di Marco Antonio Morra (Napoli 1629): condotta attraverso documenti e attestazioni originali dalle origini medievali fino al primo Seicento, l’opera riserva spazio specifico ai Morra di Favale, presentando Giovan Michele come «vir corpore licet exiguus, animo tamen grandis et acer» (p. 79) ed elencando le diverse testimonianze disponibili sulla tragedia che avrebbe colpito Isabella. La storia familiare fu segnata dall’invasione del Regno da parte dell’esercito francese guidato da Odet de Foix conte di Lautrec. Nell’occasione Giovan Michele venne meno alla fedeltà verso gli spagnoli e offrì il suo appoggio all’invasore, forse anche a causa di un’ostilità esistente con Ferrante Sanseverino principe di Salerno. Ristabilito il controllo spagnolo, Giovan Michele fu processato e dovette prendere la via dell’esilio, mentre il feudo fu confiscato; insieme con il figlio Scipione, ancora giovanissimo, riparò prima a Roma, quindi a Parigi, trovando ospitalità alla corte di Francesco I già alla fine dell’agosto 1528. Dopo che i Morra erano stati esclusi in modo mirato dagli indulti del 1529 e dell’aprile 1530, fu il primogenito Marcantonio a riprendere, per sentenza della Regia Camera di Napoli del gennaio 1533, il possesso del feudo (Morra, cit., pp. 80 s.). La stessa sentenza prevedeva anche la cancellazione della condanna di Giovan Michele, ma questi decise di rimanere a Parigi, segno di un’adesione ormai stabile al partito filofrancese, oltre che di una sistemazione che doveva riuscire non disagevole. Francesco I gli aveva garantito una pensione di 200 lire (passate poi a 400), che risulta sia stata riscossa almeno fino al 1549, mentre una menzione dell’attività poetica di Giovan Michele a corte si legge in una stampa parigina del 1535 (Picot, 1918, pp. 151, 170 e n.).
Isabella si trovò dunque a crescere in un contesto familiare diviso e decapitato. Si hanno notizie di una sua buona disposizione agli studi, condotti attraverso l’insegnamento di un precettore: già alla fine degli anni Trenta poteva celebrare con un sonetto di buona fattura (Quanto pregiar ti puoi, Siri mio amato, in Rime, IV) la presenza a Senise di Giulia Orsini principessa di Bisignano, interpretata come possibile occasione per alleviare la reclusione di Favale (Croce, 1947, pp. 316 s.). Questo è infatti il motivo dominante di una buona parte della produzione poetica di Isabella, peraltro ristrettissima, limitata a 13 componimenti: «vili et orride contrate» (Rime, I, v. 3), «il denigrato sito / come sola cagion del mio tormento» (III, vv. 13 s.) sono le espressioni che Isabella dedica a Favale. Non la madre né i fratelli – a stare al racconto reso nei versi – valsero ad alleggerire un ambiente percepito come ostile, volto a frustrare le aspettative di fama e gloria poetica che si intravedono vive tra le proteste. Le speranze di Isabella si indirizzavano alla Francia, non solo in Rime, III (D’un alto monte onde si scorge il mare), dove si esplicita l’attesa di un ritorno del padre come ripristino di una felice condizione perduta, ma anche in altri testi, nei quali la figura di Francesco I ricorre come quella cui consacrare la poesia (Rime, IV, v. 11; V, vv. 5-9). Ancora alla corte transalpina si ricollega un sonetto indirizzato a Luigi Alamanni (Non solo il ciel vi fu largo e cortese, in Rime, V), il poeta più in vista tra gli esuli fiorentini: la proposta di Isabella non ebbe, a quanto oggi risulta, una risposta, ma il testo conferma l’attenzione e la speranza con cui da Favale ella guardava a Parigi.
Una sorta di cesura è rappresentata dal sonetto Fortuna che sollevi in alto stato (Rime, VI), che attesta il venire meno di una speranza per una svolta negativa, non precisata da Isabella, ma riportata dagli interpreti al trattato di Crepy (settembre 1544), che chiudeva definitivamente la prospettiva di un intervento francese nel Regno. Gli accenti delle rime si fanno allora più lugubri, con allusioni a un «fine miserando» quale approdo di un’esistenza infelice, prima dello sbocco religioso segnato dalla canzone Signor, ch’insino a qui, tua gran mercede (Rime, IX), aperta da un’invocazione al Signore esemplata sulla canzone alla Vergine del Petrarca.
Questo gruppo di nove testi si presenta così organizzato, a indicare uno sbocco religioso, nella prima stampa delle poesie di Isabella, nelle Rime di diversi illustri signori napoletani, e d’altri mobilissimi intelletti. Libro terzo, pubblicata da Lodovico Dolce a Venezia per Gabriele Giolito e fratelli nel 1552; nello stesso anno, per lo stesso editore, uscivano anche le Rime di diversi illustri signori napoletani... Libro quinto, nient’altro che una nuova emissione delle precedenti. La stessa antologizzazione, con qualche variante, presenta la nuova edizione del 1555: Libro quinto delle Rime di diversi illustri signori napoletani.
Un secondo gruppo di testi (due sonetti e tre canzoni) fu dato alle stampe pochi anni dopo nelle Rime di diversi signori napolitani, e d’altri. Libro settimo (ibid. 1556). Questa seconda sezione si apriva sul medesimo lamento contro la Fortuna, ora aperto però ad accogliere accuse contro l’«orrida fiacchezza» dei fratelli e dell’ambiente di Favale, ad attestare un isolamento che dovette farsi, negli anni, sempre più pronunciato. Da qui, come già nella prima serie, maturava il bisogno di una distanza, attestata nei componimenti XI e XIII, mentre la canzone XII è una versione rimaneggiata e più raffinata del testo edito nella raccolta di Dolce qualche anno prima (Rime, IX). L’intero esile corpus delle rime isabelliane venne infine riunito da Ludovico Domenichi nelle Rime diverse d’alcune nobilissime, et virtuosissime donne, Lucca, V. Busdraghi, 1559. Tanto i primi nove componimenti della stampa del 1552 (come si ricava da una nota di Ruscelli a margine del Decamerone stampato a Venezia da Vincenzo Valgrisi nel 1552, p. 339), quanto gli altri provenivano dalla libreria napoletana di Marcantonio Passero: nella dedicatoria della stampa del 1556, indirizzata a Giuseppe Matteo Montenero, Dolce esplicita che era stato appunto Passero a trasmettergli molti componimenti di autori meridionali meritevoli di uscire a stampa e tra questi quella di Isabella. Si trattò, comunque, di una circolazione con ogni probabilità solo postuma, che vide coinvolti un gruppo di letterati napoletani per una curiosità acuitasi dopo la tragedia del 1545-46.
Nel contesto di un esercizio poetico condotto dunque in solitudine con accenti disperati intervenne il contatto tra Isabella e Diego Sandoval de Castro: questi era castellano della rocca di Cosenza, e spesso in transito nel feudo di Bollita (oggi Nova Siri), possedimento dei Castro dall’inizio del Cinquecento, nel quale si trovava a risiedere la moglie, la principessa Antonia Caracciolo.
Nato nei primi anni del secolo, verosimilmente almeno di un decennio più anziano di Isabella, e con alle spalle una buona formazione poetica, Castro aveva stampato nel 1542 una raccolta di versi (Le rime, Roma, V. e L. Dorico), nella quale elogiava Carlo V e accennava alla propria partecipazione alla battaglia di Algeri nel 1541. In seguito a condotta irregolare nel governo, Sandoval era stato spossessato della castellania di Cosenza, ma aveva ottenuto direttamente da Carlo V, nel maggio dello stesso anno, una proroga per potersi discolpare. Rimaneva, tuttavia, un fuggiasco che solo copertamente poteva tornare nei suoi feudi.
Secondo quanto risulta dalle testimonianze, sfruttando da un lato il nome della moglie (e forse l’amicizia di costei con Isabella, cfr. Caserta, 1976, p. 65), dall’altro la mediazione del precettore, Sandoval inviò a Isabella lettere e versi. La scoperta della corrispondenza ebbe conseguenze immediate e feroci: Isabella venne uccisa insieme con il precettore. Pochi mesi dopo, tra il settembre e l’ottobre 1546 (per una testimonianza cfr.Croce, 1947, pp. 319 s.), lo stesso Sandoval cadde in un’imboscata a Noja e fu ucciso: responsabili dei tre delitti furono i fratelli di Isabella, Decio, Cesare e Fabio, che ripararono subito dopo in Francia, unendosi al padre e sfuggendo così alle rappresaglie ordinate dal viceré Pietro di Toledo, il quale aveva comandato di perseguire i colpevoli per interesse diretto di Carlo V. Le indagini accertarono i responsabili e costrinsero a un periodo di prigionia il primogenito Marcantonio, il quale solo dopo mesi venne liberato e reintegrato nel possesso del feudo. Il padre di Isabella finì i suoi giorni in Francia, dove Scipione si guadagnò una fulgida carriera a corte, divenendo segretario di Caterina de Medici. La storia dei Morra, dopo questo culmine sanguinoso, ripiegò in un destino di debiti e sequestri già nella seconda metà del Cinquecento e la ricostruzione storica di Marco Antonio, edita nel 1621, ebbe anzitutto il valore di un tributo alle migliori stagioni passate.

FONTE: voce di E. RUSSO, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2012, vol. 77.

I SONETTI

I

I fieri assalti di crudel Fortuna
scrivo piangendo, e la mia verde etate;
me che 'n sí vili ed orride contrate
spendo il mio tempo senza loda alcuna.
Degno il sepolcro, se fu vil la cuna,
vo procacciando con le Muse amate;
e spero ritrovar qualche pietate
malgrado de la cieca aspra importuna,
e col favor de le sacrate Dive,
se non col corpo, almen con l'alma sciolta
essere in pregio a piú felice rive.
Questa spoglia, dov'or mi trovo involta,
forse tale alto Re nel mondo vive
che 'n saldi marmi la terrà sepolta.

II

Sacra Giunone, se i volgari amori
son de l'alto tuo cor tanto nemici,
i giorni e gli anni miei chiari felici
fa' con tuoi santi e ben concessi ardori.
A voi consacro i miei verginei fiori,
a te, o dea, e ai tuoi pensieri amici,
o de le cose sola alme, beatrici,
che colmi il ciel de' tuoi soavi odori.
Cingimi al collo un bello aurato laccio
de' tuo' piú cari ed umili soggetti,
che di servir a te sola procaccio.
Guida Imeneo con sí cortesi affetti
e fa' sí caro il nodo ond'io mi allaccio,
ch'una sola alma regga i nostri petti.

III

D'un alto monte onde si scorge il mare
miro sovente io, tua figlia Isabella,
s'alcun legno spalmato in quello appare,
che di te, padre, a me doni novella.
Ma la mia adversa e dispietata stella
non vuol ch'alcun conforto possa entrare
nel tristo cor, ma di pietà rubella,
la calda speme in pianto fa mutare.
Ch'io non veggo nel mar remo né vela
(cosí deserto è lo infelice lito)
che l'onde fenda o che la gonfi il vento.
Contra Fortuna alor spargo querela
ed ho in odio il denigrato sito,
come sola cagion del mio tormento.

IV

Quanto pregiar ti puoi, Siri mio amato,
de la tua ricca e fortunata riva
e de la terra, che da te deriva
il nome, ch'al mio cor oggi è sí grato;
s'ivi alberga colei, che 'l cielo irato
può far tranquillo e la mia speme viva,
malgrado de l'acerba e cruda Diva,
ch'ogni or s'esalta del mio basso stato.
Non men l'odor de la vermiglia Rosa
di dolce aura vital nodrisce l'alma
che soglian farsi i sacri Gigli d'oro.
Sarà per lei la vita mia gioiosa,
de' grievi affanni deporrò la salma
e queste chiome cingerò d'alloro.

V

Non sol il ciel vi fu largo e cortese,
caro Luigi, onor del secol nostro,
del raro stil, del ben purgato inchiostro,
ma del nobil soggetto onde v'accese.
Alto Signor e non umane imprese
ornan d'eterna fronde il capo vostro,
cose piú da pregiar che gemme od ostro,
che dai tarli e dal tempo son offese.
Il sacro volto aura soave inspira
al dotto petto, che lo tien fecondo
di glorïosi, anzi divini carmi.
Francesco è l'arco de la vostra lira,
per lui sète oggi a null'altro secondo,
e potete col sòn rompere i marmi.

VI

Fortuna che sollevi in alto stato
ogni depresso ingegno, ogni vil core,
or fai che 'l mio in lagrime e 'n dolore
viva piú che altro afflitto e sconsolato.
Veggio il mio Re da te vinto e prostrato
sotto la rota tua, pieno d'orrore,
lo qual, fra gli altri eroi, era il maggiore
che da Cesare in qua fusse mai stato.
Son donna, e contra de le donne dico
che tu, Fortuna, avendo il nome nostro,
ogni ben nato cor hai per nemico.
E spesso grido col mio rozo inchiostro
che chi vuole esser tuo piú caro amico
sia degli uomini orrendo e raro mostro.

VII

Ecco ch'una altra volta, o valle inferna,
o fiume alpestre, o ruinati sassi,
o ignudi spirti di virtute e cassi,
udrete il pianto e la mia doglia eterna.
Ogni monte udirammi, ogni caverna,
ovunqu'io arresti, ovunqu'io mova i passi;
ché Fortuna, che mai salda non stassi,
cresce ogn'or il mio mal, ogn'or l'eterna.
Deh, mentre ch'io mi lagno e giorno e notte,
o fere, o sassi, o orride ruine,
o selve incolte, o solitarie grotte,
ulule, e voi del mal nostro indovine,
piangete meco a voci alte interrotte
il mio piú d'altro miserando fine.

VIII

Torbido Siri, del mio mal superbo,
or ch'io sento da presso il fin amaro,
fa' tu noto il mio duolo al Padre caro,
se mai qui 'l torna il suo destino acerbo.
Dilli come, morendo, disacerbo
l'aspra Fortuna e lo mio fato avaro
e, con esempio miserando e raro,
nome infelice a le tue onde serbo.
Tosto ch'ei giunga a la sassosa riva
(a che pensar m'adduci, o fiera stella,
come d'ogni mio ben son cassa e priva!),
inqueta l'onde con crudel procella
e di': – Me accreber sí, mentre fu viva,
non gli occhi no, ma i fiumi d'Isabella.

IX

Se a la propinqua speme nuovo impaccio
o Fortuna crudele o l'empia Morte,
com'han soluto, ahi lassa, non m'apporte,
rotta avrò la prigione e sciolto il laccio.
Ma, pensando a quel dí, ardo ed agghiaccio,
ché 'l timore e 'l desio son le mie scorte:
a questo or chiudo, or apro a quel le porte
e, in forse, di dolor mi struggo e sfaccio.
Con ragione il desio dispiega i vanni
ed al suo porto appressa il bel pensiero
per trar quest'alma da perpetui affanni.
Ma Fortuna al timor mostra il sentiero
erto ed angusto e pien di tanti inganni,
che nel piú bel sperar poi mi dispero.

X

Scrissi con stile amaro, aspro e dolente
un tempo, come sai, contra Fortuna,
sí che null'altra mai sotto la luna
di lei si dolse con voler piú ardente.
Or del suo cieco error l'alma si pente,
che in tai doti non scorge gloria alcuna,
e se de' beni suoi vive digiuna,
spera arricchirsi in Dio chiara e lucente.
Né tempo o morte il bel tesoro eterno,
né predatrice e vïolenta mano
ce lo torrà davanti al Re del cielo.
Ivi non nuoce già state né verno,
ché non si sente mai caldo né gielo.
Dunque ogni altro sperar, fratello, è vano.



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