lunedì 17 febbraio 2014

Personaggi. 8. I Rendina di Campomaggiore

La famiglia Rendina offre un esempio notevole, ancorché poco studiato, di autorappresentazione. Casi finora poco studiati, ma sui quali risulta utile dare alcuni cenni che possano evidenziare come il caso Rendina possa aiutare una ricostruzione ed una lettura dell’immagine del sé  da parte di una famiglia del patriziato di Basilicata a tutto tondo: nel campo dell’autorappresentazione scritta, della monumentalità, della pratica politica.
Il primo esempio è rappresentato dalla Istoria della Città di Potenza dell’arcidiacono potentino Giuseppe Rendina, composta tra il 1668 e il 1673. Una sorta di ‘storia ibrida’, in quattro libri, che mostra chiaramente la sovrapposizione, visibile, peraltro, anche nella storiografia coeva di Matera e di Venosa, tra agiografia, archeologia e genealogia. Nel libro I, infatti, trattando delle origini della città, il Rendina mostrava di adeguarsi al modello della fondazione ‘mitistorica’ recuperando, come nel caso del Cenna per Venosa, frammenti della ‘grande’ storia e disinvoltamente adattandoli alla città anche tramite il capzioso ricorso alle fonti epigrafiche. Per costruire un adeguato fondamento all’archeologia cittadina – considerato che il puro ricorso alla storia non poteva dimostrare alcunché -, il Rendina, nell’intento di legare alla Chiesa le virtù civico-morali dei cittadini, si diffondeva, nel secondo libro, sulla leggenda, di origine beneventana, dei Santi dodici fratelli cartaginesi, martirizzati sotto l’imperatore Massimiano e proclamati patroni della città. Passava, poi, a trattare, nel libro III, per meglio dimostrare la continuità del potere ecclesiastico, degli eventi storici riguardanti la locale Chiesa, incentrato sulle vicende della cattedrale e di Gerardo La Porta, vescovo di Potenza e patrono della città, nonché, secondo il consueto modello della cronotassi, sui vescovi suoi successori e sulla loro opera di costruzione degli spazi sacri, tramite la fondazione di chiese, monasteri e luoghi pii. Nel libro IV, infine, l’autore ricuciva storia sacra ‘antica’ e storia recente, dimostrando l’importanza della propria città con la narrazione della rivolta di Potenza contro Carlo d’Angiò, della infeudazione ai Guevara, della venuta, nel 1502, del duca di Nemours, in attesa del Gran Capitano Consalvo de Cordova, chiudendo, come a suggellare la dinamica cittadina, con una vera e propria microgenealogia della famiglia Loffredo, che l’autore, seguendo in questo i dettami dei genealogisti, capziosamente legava al principe longobardo Arechi.Più che costruire una vera e propria narrazione “storica”, il Rendina utilizzò la storia, l’antiquaria, il diritto come griglie strutturali per delineare la costruzione materiale delle città, ricorrendo anche all’agiografia, con una prima “prova” fondata sulla nascita “eroica” della città da un eroe o da un dio, spesso collocati nella prima, grande guerra storicamente “provata”, quella troiana, cui seguiva la vita del Santo patrono, con il racconto del ritrovamento delle sue reliquie, la descrizione delle chiese cittadine e la cronotassi dei vescovi, nel costante modulo interpretativo di una città-chiesa con la sua sacralità politico-amministrativa, che andava ad integrare il potere regale su un piano di parità.

Se il canonico Rendina rappresenta un notevolissimo caso di autorappresentazione “scritta”, ancor più evidente risulta tale volontà di intervenire nel campo dell’immagine di sé con Teodoro Rendina, considerabile come il “fondatore” di Campomaggiore, costruita su progetto di Giovanni Patturelli, allievo del Vanvitelli, che pose come base della sua progettazione le idee delle teorie utopistiche di Robert Owen e Charles Fourier. Il centro abitato fu, infatti, progettato per sole 1600 persone, con case disposte a scacchiera, i cui abitanti avessero un appezzamento di terra da coltivare con un numero di ulivi predefinito ed una vigna. Al centro del paese si trovava la Chiesa, intitolata alla Beata Vergine Maria del Monte Carmelo e il Palazzo baronale, disposti in armonica posizione rispetto alla Piazza dei Voti, per indicare, non più in posizione opposta, quanto piuttosto concorde, la volontà di collaborazione tra i poteri locali. Le prime 16 famiglie si insediarono il 20 novembre 1741.
Il modello di comunità agricola di Campomaggiore, dunque, rientrava in pieno nell’alveo della cultura dei riformatori napoletani, in primis di Antonio Genovesi e delle sue Lezioni di Commercio, secondo il quale era necessario perseguire un indirizzo politico di decentramento della popolazione e del commercio  dalla Città verso la periferia, con un’accorta ripartizione della proprietà.
In non casuale sintonia, dunque, con l’esperimento borbonico di San Leucio, “simbolo e modello” di una società pacifica, nella quale non sarebbe esistita la proprietà privata e il commercio sarebbe stato fondato sull’agricoltura e sui mestieri. 

Infine, a livello di autorappresentazione fattuale può essere interessante richiamare il ruolo svolto dal marchese Gioacchino Cutinelli Rendina nei cruciali mesi della rivoluzione del 1860. Il Rendina, marchese di Campomaggiore, aveva partecipato alla rivoluzione del 1848 e, inquisito, era stato relegato in domicilio coatto proprio a Campomaggiore come attendibile politico. Solo nel 1855 era stato escluso dalla lista degli attendibili. Aveva, comunque, un ruolo di traino notevole tra i liberali della zona, come è evidente dal fatto che, nominato presidente dei Comitati insurrezionali di Campomaggiore e Trivigno, aveva, fin dal luglio 1860, ricevuto l’incarico di mantenere i contatti con il laurenzanese Domenico Asselta per il rifornimento di armi e la contribuzione pecuniaria necessaria ai sottocentri insurrezionali. Infatti Trivigno era inclusa nel centro principale dei 12 nei quali era stata divisa la Basilicata in previsione della rivoluzione “d’appoggio” all’avanzata di Garibaldi, ossia quello di Corleto; nel contempo, il Cutinelli era a capo di un comitato, quello di Campomaggiore, incluso nel sottocentro di Tricarico. In entrambi i casi, Cutinelli era in rapporto con due dei più importanti esponenti del movimento insurrezionale, quali il presidente del Comitato Centrale, Carmine Senise, e il tricaricese Francesco Paolo Lavecchia. Proprio con il Comitato di Corleto il Cutinelli ebbe scambi epistolari ed incontri sull’organizzazione militare, come evidente da una lettera da Corleto dell’8 agosto, nella quale si fa riferimento alla proposta, da parte del marchese, di organizzare su solide basi militari il movimento insurrezionale. Su tale proposta si decise che compito dei presidenti dei comitati cittadini fosse quello di capitanare i drappelli insurrezionali dei s
ingoli centri fino al loro congiungimento con le colonne d’area partite dai sottocentri insurrezionali. Nella fattispecie, Gioacchino Cutinelli Rendina avrebbe dovuto congiungersi, con i drappelli di Campomaggiore e Trivigno, alla colonna tricaricese, capitanata da Lavecchia. In realtà, il comando del drappello dei 20 militi di Campomaggiore sarebbe stato accortamente delegato a Leonardo Chiaromonte e Angelo Maria Giudice. L’esperienza militare ed organizzativa del marchese di Campomaggiore era, dunque, notevolissima, se gli stessi Prodittatori, Giacinto Albini e Nicola Mignogna, gli affidarono, il 20 agosto, quindi il giorno dopo la proclamazione del Governo Prodittatoriale, il compito di fare da tramite tra il Governo e il comando militare degli insorti, affidato al colonnello Camillo Boldoni, rappresentando «l’organo fedele ed immediato tra il Capo militare ed il Governo», con piena facoltà di veto «nel caso […] che le suddette operazioni potessero tornare a scapito del presente stato di cose». Si spiega, dunque, come il 24 agosto Gioacchino Cutinelli Rendina fosse nominato aiutante di campo dallo stesso Camillo Boldoni.

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