La famiglia Rendina offre un esempio notevole, ancorché poco studiato, di autorappresentazione. Casi finora poco studiati, ma sui quali risulta utile dare alcuni cenni che possano evidenziare come il caso Rendina possa aiutare una ricostruzione ed una lettura dell’immagine del sé da parte di una famiglia del patriziato di Basilicata a tutto tondo: nel campo dell’autorappresentazione scritta, della monumentalità, della pratica politica.


Il modello di comunità agricola di Campomaggiore, dunque, rientrava in pieno nell’alveo della cultura dei riformatori napoletani, in primis di Antonio Genovesi e delle sue Lezioni di Commercio, secondo il quale era necessario perseguire un indirizzo politico di decentramento della popolazione e del commercio dalla Città verso la periferia, con un’accorta ripartizione della proprietà.
In non casuale sintonia, dunque, con l’esperimento borbonico di San Leucio, “simbolo e modello” di una società pacifica, nella quale non sarebbe esistita la proprietà privata e il commercio sarebbe stato fondato sull’agricoltura e sui mestieri.
Infine, a livello di autorappresentazione fattuale può essere interessante richiamare il ruolo svolto dal marchese Gioacchino Cutinelli Rendina nei cruciali mesi della rivoluzione del 1860. Il Rendina, marchese di Campomaggiore, aveva partecipato alla rivoluzione del 1848 e, inquisito, era stato relegato in domicilio coatto proprio a Campomaggiore come attendibile politico. Solo nel 1855 era stato escluso dalla lista degli attendibili. Aveva, comunque, un ruolo di traino notevole tra i liberali della zona, come è evidente dal fatto che, nominato presidente dei Comitati insurrezionali di Campomaggiore e Trivigno, aveva, fin dal luglio 1860, ricevuto l’incarico di mantenere i contatti con il laurenzanese Domenico Asselta per il rifornimento di armi e la contribuzione pecuniaria necessaria ai sottocentri insurrezionali. Infatti Trivigno era inclusa nel centro principale dei 12 nei quali era stata divisa la Basilicata in previsione della rivoluzione “d’appoggio” all’avanzata di Garibaldi, ossia quello di Corleto; nel contempo, il Cutinelli era a capo di un comitato, quello di Campomaggiore, incluso nel sottocentro di Tricarico. In entrambi i casi, Cutinelli era in rapporto con due dei più importanti esponenti del movimento insurrezionale, quali il presidente del Comitato Centrale, Carmine Senise, e il tricaricese Francesco Paolo Lavecchia. Proprio con il Comitato di Corleto il Cutinelli ebbe scambi epistolari ed incontri sull’organizzazione militare, come evidente da una lettera da Corleto dell’8 agosto, nella quale si fa riferimento alla proposta, da parte del marchese, di organizzare su solide basi militari il movimento insurrezionale. Su tale proposta si decise che compito dei presidenti dei comitati cittadini fosse quello di capitanare i drappelli insurrezionali dei s
ingoli centri fino al loro congiungimento con le colonne d’area partite dai sottocentri insurrezionali. Nella fattispecie, Gioacchino Cutinelli Rendina avrebbe dovuto congiungersi, con i drappelli di Campomaggiore e Trivigno, alla colonna tricaricese, capitanata da Lavecchia. In realtà, il comando del drappello dei 20 militi di Campomaggiore sarebbe stato accortamente delegato a Leonardo Chiaromonte e Angelo Maria Giudice. L’esperienza militare ed organizzativa del marchese di Campomaggiore era, dunque, notevolissima, se gli stessi Prodittatori, Giacinto Albini e Nicola Mignogna, gli affidarono, il 20 agosto, quindi il giorno dopo la proclamazione del Governo Prodittatoriale, il compito di fare da tramite tra il Governo e il comando militare degli insorti, affidato al colonnello Camillo Boldoni, rappresentando «l’organo fedele ed immediato tra il Capo militare ed il Governo», con piena facoltà di veto «nel caso […] che le suddette operazioni potessero tornare a scapito del presente stato di cose». Si spiega, dunque, come il 24 agosto Gioacchino Cutinelli Rendina fosse nominato aiutante di campo dallo stesso Camillo Boldoni.
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