L’età napoleonica nel Regno di Napoli si pose nel segno di una riformulazione dei rapporti tra potere centrale e rappresentanze periferiche. Si trattò non solo di novità istituzionale, con la nascita delle intendenze, ma anche, e soprattutto, di una riogranizzazione degli assetti sociali che, tenendo conto di nuove spinte che attendevano solo un punto di riferimento politico, spostò l’asse del potere. Una dislocazione, più che perifericità, che fece dei gruppi dirigenti locali protagonisti diretti dell’attività gestionale. I centri di organizzazione della vita provinciale, nettamente diversi da quelli di antico regime, cambiarono in base ad una gerarchizzazione ormai basata sui rapporti di forza e sulla rete sociale istituita da nuove oligarchie cittadine.
Nel caso del nuovo capoluogo della provincia di Basilicata, Potenza, ciò significò un assestamento e una netta ascesa dei ceti della borghesia terriera cresciuta all’ombra del feudo e della locale Chiesa e rappresentata da poche famiglie, tra le quali le più attive, nel corso dell’età napoleonica ed oltre, risultano essere gli Addone, gli Amati, i Cortese, i Castellucci.
La società potentina era cresciuta, infatti, intorno al potere del capitolo cattedrale di san Gerardo e dei conti Loffredo, amministrandone i vasti possedimenti – come nel caso della famiglia Cortese, che amministrava i beni dei conti ancora nel 1792, con Michelangelo Cortese e dei Giuliani -. Tuttavia, il reddito di tali famiglia risultava ben al di sotto di altre realtà della provincia. In un solo caso, infatti, come evidente nel Catasto Onciario, erano superati i 450 ducati di imponibile, come, ad esempio, per il dottore Francesco Giuliani e Nicola Addone, non a caso proprietari di grandi armenti. Gli Addone e i Giuliani, del resto, appartenevano alla categoria dei massari, che, attraverso un’intensa attività delle proprie aziende agricole, erano riusciti a raggiungere una notevole indipendenza economica (tanto che, in alcuni casi, erano più ricchi degli stessi nobili). I massari riuscirono, inoltre, grazie alle accresciute competenze dei propri figli, che grazie agli studi a Napoli avevano acquisito professionalità e relazioni politiche salde, ad estendere la loro presenza negli sviluppi politici locali, come dimostrato dagli eventi della municipalità repubblicana potentina nel 1799. Del resto, è noto come «forensi, preti o soldati […]» fossero «gli sbocchi obbligati per un giovane […] a Napoli […]. E sul primato dello sbocco forense, le testimonianze sono fin troppo frequenti e abbondanti».
Era, dunque, ormai in atto a Potenza, dunque, fin dalla metà del Settecento, uno spostamento dell’asse sociale, con la sostituzione di nuovi ceti terrieri alle antiche famiglie del patriziato cittadino. Si andava formando, infatti, un primo nucleo di borghesia agraria che traeva le rendite più importanti dall’allevamento del bestiame e, in misura minore, dalla terra, che amministrava in qualità di affittuaria dei beni ecclesiastici, che coprivano il 59% del territorio potentino contro il 9% del locale feudatario. Diversi esponenti di tali famiglie, attraverso accorte manovre basate su operazioni economiche, strategie familiari e matrimoniali, avrebbero realizzato, nel giro di una generazione, una notevole ascesa economico-sociale anche grazie all’alienazione dei beni ecclesiastici che, in parallelo alle quotizzazioni dei corpi demaniali, diede modo alla borghesia potentina di estendere ulteriormente i propri possedimenti tramite l’acquisto di terreni già appartenuti alla Grancia della Certosa di S. Lorenzo di Padula. Nicola Addone, tra i più attivi, avrebbe acquisito per 22.663 ducati quattro lotti rivenienti dai conventuali.
Tale scalata al potere tramite l’allargamento economico è confermata dallo Stato dei più ricchi proprietari della provincia di Basilicata, compilato nel 1809 per l’inclusione nella lista degli eleggibili. Infatti, tra i 313 galantuomini della Provincia tassati per un imponibile superiore ai 250 ducati, 12 erano potentini. Di certo si trattava di una élite socio-economica piuttosto ristretta, tuttavia basata proprio su esponenti delle famiglie che già a metà Settecento avevano iniziato a costruire la propria fortuna. È il caso Nicola e Basileo Addone, nipoti del Nicola che già nel Catasto Onciario figurava, come detto, tra i maggiori contribuenti e possessori di armenti. Gli Addone avrebbero continuato ad estendere il proprio potere tramite il matrimonio, nel 1822, tra Basileo e Lucrezia Amati, figlia del sindaco Giacinto ed erede di una famiglia di massari di campo. Un altro sindaco (nel biennio 1814-15) e discendente da un massaro era Gerardo Castellucci, peraltro legatosi agli Addone per aver sposato Caterina Addone. Per questa ristretta borghesia, le alleanze familiari restavano ancora, evidentemente, un’importante risorsa per la costruzione e l’allargamento della rete del potere cittadino. Contemporaneamente, tuttavia, se per un verso si continuò a cercare di raggiungere il titolo di dottore in utroque iure per poter aumentare le possibilità di prestigiosi e duraturi incarichi amministrativi legati alle funzioni del nuovo capoluogo, non si tralasciò, comunque, alcuna occasione per continuare l’opera di irrobustimento del patrimono, tramite l’acquisto dei beni ecclesiastici, l’affitto delle terre comunali o gli appalti per le opere pubbliche.
In effetti, dopo la nomina di Gerardo Catalano nel 1807, primo sindaco del nuovo capoluogo di Provincia, molti sindaci, tra i quali Basileo Addone, Gerardo Cortese, Luigi Maffei, risultano appartenenti alla categoria dei galantuomini.
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