Il feudo di Melfi andò ai Caracciolo dal 1416, quando la regina Giovanna II lo donò a Sergianni Caracciolo, suo favorito e gran Siniscalco del Regno. In alcuni testi Melfi risulta in possesso dei Caracciolo fin dal 1392; in realtà in tale data Melfi passò dalla famiglia Acciajoli a Goffredo Marzano, Gran Camerario del Regno, e nel 1416 a Sergianni Caracciolo del Sole per concessione di Giovanna II d’Angiò. Al 1420 risale l'acquisto di Ripacandida dai Bonifacio, mentre Abriola fu portata in dote dalla moglie di Sergianni, Caterina Filangieri. Il Caracciolo, inoltre, tra il 1425 e il 1432 ottenne anche il ducato di Venosa ed esercitò indirettamente il controllo su Oppido, sul castrum di Monticchio e su Lavello.
I componenti della famiglia Caracciolo non erano però riusciti a mantenere la continuità di governo sul feudo, che fu confiscato loro più volte in seguito a diversi scontri con la Corona: nel 1432 per contrasti personali con la stessa Giovanna II, che ordinò la confisca dei feudi a Troiano, figlio di Sergianni, ma con breve durata: la fine del governo angioino era imminente e il Caracciolo, essendosi opportunamente posto al servizio di Alfonso d'Aragona e avendo contribuito al successo di quest'ultimo, fu premiato nel 1441 con il titolo ducale e la restituzione dell'intero stato di Melfi. Per oltre quarant'anni la configurazione del vasto comprensorio di feudi non subì variazione.
Nel 1485 i Caracciolo, tuttavia, contribuirono all’organizzazione della congiura dei baroni contro Ferrante, anche perché Troiano III aveva sposato una Sanseverino e, con il pretesto delle nozze, si progettava la riunione dei baroni antiaragonesi.
Nel 1503, in seguito alla battaglia di Cerignola e alla successiva occupazione di Melfi da parte di Consalvo de Cordova, l’orientamento filofrancese del Principe Troiano Caracciolo lo costrinse a fuggire da Melfi in Francia, rifiutando la possibilità di conservare il feudo a patto di schierarsi con gli spagnoli.
La pace con Luigi XII e la successiva azione politica di Ferdinando il Cattolico (che si era impegnato sia a ricucire i rapporti tra i baroni filospagnoli e filofrancesi) consentì ai signori che avevano parteggiato per la Francia di recuperare i propri feudi; così anche i Caracciolo rientrarono a Melfi. Nel 1528 il principe di Melfi Giovanni III Caracciolo, nel delinearsi degli schieramenti dovuti al riacutizzarsi del conflitto tra Francesco I e Carlo V, si era mantenuto fedele agli Spagnoli, contrariamente a quelle che erano state le scelte dei suoi antenati e a quelle che furono le scelte di molti baroni napoletani.
Quando le truppe di Pietro Navarro - capitano al servizio del comandante francese Lautrec - entrarono a Melfi, Giovanni era preparato alla difesa del castello insieme ad un «buon presidio di soldati imperiali». I soldati del Navarro, ai quali si erano unite le bande nere di Giovanni de Medici, riuscirono ad entrare in città grazie alla collaborazione di alcuni cittadini che aprirono di nascosto una delle porte secondarie. La valorosa difesa degli abitanti di Melfi non riuscì, però, ad evitare il saccheggio e l’incendio della città, nella cui piazza principale furono passate a fil di spada più di tremila persone. A ciò seguirono l’assalto e l’espugnazione del castello, nel corso della quale il principe e la sua famiglia vennero fatti prigionieri. Solo dopo il rifiuto della Regia Corte di pagare il riscatto, il Caracciolo si schierò a favore dei francesi.
Fu questa, però, una scelta di campo fatale: l’attacco di Lautrec, portatosi sotto le mura di Napoli, si concluse in un disastro, distruggendo le illusioni autonomistiche delle fazioni baronali antispagnole e dei ceti cittadini e fornendo al governo l’opportuna giustificazione alle condanne, carcerazioni e confische che seguirono di lì a poco. La città di Melfi, in tale ambito, si guadagnava il titolo di “fedelissima” e l’esenzione dal pagamento dei tributi per 12 anni; ma la riconoscenza dell’imperatore si fermò a questo. Le speranze di ottenere la demanialità furono ben presto disilluse in seguito alla donazione del feudo ad Andrea Doria nel 1531.
Nessun commento:
Posta un commento