Il termine Università veniva attribuito più propriamente alle «Città Regie», cioè quei centri che passavano al Regio Demanio, cioè alle dirette dipendenze della Corona e senza l'intermediazione del barone: in tal modo tutte le terre feudali comprese nel suo agro erano riscattate e diventavano di possesso comune, cioè “universali”. Il comune, pertanto, amministrava per conto suo queste terre, decidendo autonomamente se concedere ai privati contadini o lasciarle all'uso comune. I vari centri diventavano Città Regie solo se compravano se stesse, cioè si impegnavano a versare allo Stato la somma per il proprio riscatto. In Basilicata le città che riuscirono in tale impresa, ossia sottrarsi al peso feudale, furono pochissime: Saponara, Lagonegro, Matera, Maratea, San Mauro e Rivello. Tutte le altre università erano sotto la dipendenza del feudatario.
Ogni università, sia feudale che regia, era amministrata dal Buon Governo dei Reggimentari, composto dal mastrogiurato, che aveva funzioni di amministratore della giustizia, dal sindaco, che amministrava i beni demaniali e, infine, gli Eletti, il cui numero, a seconda delle università, variava da due a dodici.
I poteri del Sindaco erano limitati all'interno dell'amministrazione, in quanto doveva attenersi alle direttive del mastrogiurato, figura preminente nell'amministrazione cittadina, detto anche ufficiale di polizia, ed era nominato dal baglivo. Quest'ultimo era l'ufficiale del governo, riceveva ordini dal sovrano e dai giudici e, oltre al potere amministrativo, salvaguardava i beni dello Stato, istruiva e dirimeva le controversie civili ed era abilitato anche ad arrestare ladri ed assassini.
All'interno dell'amministrazione comunale vi era anche il camerario, oppure detto camerlengo o erario, ed era l'assessore addetto alle finanze e svolgeva la sua mansione coadiuvato da apprezzatori, tassatori, e razionali nella riscossione di dazi, di gabelle e di entrate del feudo. Il notaio (o cancellarius o mastrodatto) teneva il registro delle deliberazioni del feudatario, del sindaco, delle autorità in genere ed annotava ciò che avveniva nella comunità. Il capitano era il responsabile militare della zona e sovraintendeva alla sicurezza del comune in pace e in guerra. I giudici, invece, erano presenti solo nelle grandi università, e diramavano le cause civili e panali e istruivano processi che inviavano a Napoli. Infine vi erano le guardie rurali che vigilavano sul territorio e sulle campagne allora infestate da molti ladri e assassini.
La nuova amministrazione veniva eletta dall'assemblea dei cittadini, convocata ogni anno generalmente tra agosto e settembre, su designazione degli amministratori uscenti o del barone. In caso di contrasto, si procedeva al metodo del ballottaggio, dove ogni partecipante all'assemblea era invitato ad esprimere segretamente il proprio voto, ponendo per ogni candidato una ballotta (spesso si utilizzava una fava) nell'urna o in quella del si o in quello del no, a seconda se fosse favorevole o contraria alla sua elezione.
Durante lo svolgimento dell'elezione era ammessa la presenza del governatore, che amministrava la giustizia in nome del feudatario, del sindaco con gli eletti e del camerlengo, per evitare brogli o intrusioni. I nuovi eletti dell'amministrazione comunale venivano elencati in apposito registro e proclamati pubblicamente. Terminato il mandato annuale, gli amministratori non potevano essere immediatamente riconfermati.
Amministrare una università era un'occasione per una scalata sociale e per consolidare la posizione economica e patrimoniale della proprio famiglia, infatti erano gli amministratori ad assegnare in affitto le varie terre comunali e ad attuare una vera e propria politica fiscale, fissando dazi e gabelle, rivedendo il catasto e procedendo all'appalto della riscossione delle imposte. Dunque chi controllava l'università aveva un potere tutt'altro che fittizio. Con il tempo vennero a crearsi dei gruppi dirigenti stabili e ristretti formate da famiglie nobili.
Fino alla metà del Cinquecento nei consigli cittadini la proporzione tra la rappresentanza dei due ceti si mantenne ancora paritaria, dalla metà del secolo in poi la nobiltà cittadina iniziò ricondurre i consigli sotto la propria egemonia. Vari fattori determinarono questo cambiamento dell'equilibrio cittadino.
Il primo riguardava le esigenze del potere centrale nell'organizzazione del consenso alla sua politica. Se nella gestione dell'apparato dello Stato la Corona aveva deciso di utilizzare i togati, non di estrazione nobiliare, per la gestione del territorio periferico essa aveva preferito dare largo spazio alle famiglie nobiliari. L'altro elemento di questo cambiamento va ricercato nella debolezza dei ceti medi urbani. Gli operatori commerciali non si lanciavano in operazioni che comportavano rischi di capitali, in realtà la loro prospettiva non era la città, ma la campagna dove mediavano tra massari e contadini da un lato, e coi baroni dall'altro. La loro aspirazione non era affermarsi nel consiglio cittadino come ceto medio, ma aspiravano ai valori nobiliari, nel quale speravano di entrare attraverso alleanze matrimoniali. Le famiglie nobili dell'amministrazione comunale si servivano dei «libri d'oro», cioè l'elencazione delle famiglie che si ritenevano le uniche degne di reggere le cariche pubbliche, per chiudere i loro ranghi non ammettendo nuovi elementi. Per questa via il governo delle città restava nelle mani delle stesse famiglie.
BIBLIOGRAFIA
R. GIURA LONGO, La Basilicata dal XIII al XVIII secolo, in Storia del Mezzogiorno, diretta da G. Galasso e R. Romeo, vol. XV, Le province del Mezzogiorno, Napoli, Edizioni del Sole, 1990.
T. PEDIO, Vita di una cittadina meridionale nel Medioevo e nell'età moderna (note ed appunti), Potenza, Dizionario dei Patrioti Lucani, 1968.
C. BISCAGLIA, Università e statuti municipali nella Basilicata tra Medioevo ed età moderna, in Lamisco 2002. Studi e documenti di storia di Matera e del suo territorio a cura della Sezione materana della Deputazione di Storia Patria per la Lucania, Matera, Giannatelli, 2002.
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