Le chiese ricettizie ebbero un ruolo primario non solo nella storia del clero ma anche nella storia della società meridionale. Ciò era più evidente per la Basilicata dove ricettizie non erano solo le parrocchie, ma anche i capitoli cattedrali di tutte le diocesi lucane. Le ricettizie erano associazioni di preti locali che gestivano in massa comune un patrimonio di natura laica, che poteva derivare o dai beni delle famiglie private o dalle università, e ciò era consentito solo dai preti nativi del luogo che avessero avuto il privilegio di diventare “partecipanti” o “porzionari”. La nomina dei partecipanti era di natura laicale e spettava o ai comuni, nel caso in cui le ricettizie erano dette anche “comunie”, o a famiglie locali, nel caso in cui erano dette “familiari”. Solo dopo l'avvenuta designazione interveniva l'ordinario diocesano che controllava l'idoneità dei prescelti sotto il profilo spirituale. Il numero dei partecipanti era fissato negli atti di fondazione o in antichi statuti, e in base alle indicazioni statuarie vi erano ricettizie numerate, le cui ascrizioni erano a numero chiuso, e ricettizie innumerate, il cui numero di sacerdoti e chierici era illimitato e aperto. Inoltre le ricettizie si distinguevano anche in curate e semplici, a seconda che avessero o meno la cura delle anime, affidata al collegio di sacerdoti e chierici.
Il clero ricettizio eleggeva un vicario curato che svolgeva le funzioni di parroco ma non a vita perché la nomina era movibile. Tale nomina era subordinata al giudizio di idoneità da parte del vescovo, ma non si trattava di un'istituzione canonica e, a differenza di altri parroci, il vicario curato non percepiva la congrua, ma una parte delle rendite della chiesa, pur se in misura maggiore rispetto a quella percepita dagli altri partecipanti.
Le chiese ricettizie si differenziavano per i tempi e i modi d'accesso e di conseguimento della partecipazione, nell'espletamento del servizio e assolvimento della cura delle anime e nella gestione della massa comune. Per la chiesa cattedrale di Matera, ad esempio, l'iter d'accesso allo status di partecipante alla massa comune, che nel primo anno veniva assegnata per metà quota, prevedeva un'attività gratuita di quattordici anni da parte del chierico. Presso il capitolo cattedrale di Potenza, che a partire dal 1221 fu costituito da tre dignità e nove canonici ai quali nel 1742 se ne aggiunsero altri sei, si accedeva ad un quarto di porzione dopo cinque anni di servizio nel coro, a metà quota dopo nove anni e all'intera partecipazione dopo undici.
Nella cattedrale metropolitana di Acerenza, il cui capitolo, agli inizi del Cinquecento era costituito da tre dignità e diciassette canonici, l'accesso alla partecipazione era consentito dopo un percorso di servizio gratuito novennale. Queste differenze d'accesso alla partecipazione riguardavano anche le chiese ricettizie di più piccole dimensioni, solitamente monoparrocchiali, che in genere erano formate da un'unica dignità, arciprete, al quale spesso si aggiungeva una seconda dignità, quella del cantore. Il ruolo dell'arciprete era da primus inter pares nei riguardi degli altri sacerdoti partecipanti, i quali accedevano secondo modalità e percorsi non sempre omogenei, anche in realtà locali ricadenti nello stesso ambito territoriale diocesano. Così se nella chiesa di Santa Maria della Platea di Genzano di Lucania il percorso d'accesso alla partecipazione era di sette anni, nella vicina ricettizia dei Santissimi Pietro e Paolo di Oppido il percorso era di otto anni, mentre in quella di Santa Maria del Carmine di Cancellara si prestava servizio gratuito in sagrestia per tre anni e un altro, sempre gratuito, di procuratore, prima di accedere alla partecipazione.
Il governo collegiale delle ricettizie avveniva attraverso due tipologie di assemblee, quella ordinaria e quella annuale. L'assemblea ordinaria veniva convocata ogni settimana, di solito il venerdì o di sabato, e la convocazione veniva affissa davanti la sagrestia, almeno un giorno prima, direttamente da parte dell'arciprete o, in sua assenza dal prete più anziano. La seduta era valida solo con la presenza di almeno metà dei componenti e aveva inizio con l'invocazione dello Spirito Santo. Dopo la discussione sui singoli punti all'ordine del giorno, si procedeva alla votazione il cui voto era segreto e si utilizzavano oggetti “di fortuna” come ad es. fave, ceci. Uno dei problemi più discussi durante l'assemblea era l'assolvimento della cura delle anime, che era prevista come collegiale. Ovunque, infatti, se la cura abituale era statutariamente riferita alla collegialità capitolare, di fatto era in genere legata a una sola delle dignità, di solito l'arciprete, che l'esercitava con l'aiuto di altri sacerdoti aggregati.
Il percorso formativo seguito dal clero partecipante non andava oltre l'apprendimento derivante dal servizio pre-partecipazione prestato nelle chiese ricettizie, nel cui ambito per secoli era avvenuta la formazione reale dei chierici presso i sacerdoti più anziani, i quali furono tra i più tenaci avversari dello steso versamento della tassa pro-seminario. Per molto tempo, in campo formativo, le ricettizie finirono per rappresentare di fatto un'alternativa ai seminari. Ciò spiega la prevalenza di un clero senza alcuna preparazione morale, né religiosa, un clero del resto che aspirando più alla partecipazione rinunciava alla dottrina e dove a conseguire tale status non erano sempre i migliori in quanto i canonici davano più riguardo alla parentela che ai meriti.
Il clero ricettizio, non formatosi spesso per una vera devozione religiosa, si occupava di più della crescita economica e la possibile fruizione di beni e rendite della massa comune e con essa l'entità della propria quota capitolare annuale, peraltro con l'intento di poterla perpetuare per i propri familiari. Per questo veniva data particolare attenzione alla gestione patrimoniale, che di solito vedeva direttamente impegnati i sacerdoti. L' azienda clerale era organizzata in questo modo: il procuratore generale del capitolo si occupava della gestione dell'azienda, questo era l'ultimo sacerdote ordinato e veniva nominato ogni anno a metà agosto. Entro dicembre doveva presentare un bilancio del capitolo a due razionali che lo analizzavano e lo approvavano. Il sagrestano, invece, si occupava di riscuotere i censi e gli affitti dei terreni che venivano subaffittati, e di stipulare i contratti dei beni rimasti liberi, vacanti. Infine c'era il procuratore ad lites che si occupava delle cause giuridiche del capitolo ed era l'assistente del vicario curato, e i procuratori deputati a cui veniva affidato il compito dell'introito e divisione della massa comune fa tutti i partecipanti-porzionari.
Al fine di un più diretto controllo dei beni della massa comune, di cui la ricettizia era proprietaria, a ogni partecipante l'assemblea assegnava a rotazione e per un periodo massimo di tre anni uno o più terreni. Il prete-partecipante-porzionario diventava il punto di riferimento economico per tutta la sua famiglia. Quest'ultimo aveva l'obbligo della residenza nel luogo natio, da dove poteva allontanarsi, e per un periodo limitato di tempo, unicamente sotto autorizzazione dell'assemblea del clero ricettizio. In caso di trasgressione si rischiava addirittura di perdere la partecipazione o comunque di vedersi sospesa la concessione della rendita.
A. LERRA, Chiesa e società nel Mezzogiorno. Dalla "ricettizia" del sec. XVI alla liquidazione dell'Asse ecclesiastico in Basilicata, prefazione di A. Cestaro, Venosa, Osanna, 1996
ID., La chiesa ricettizia, in G. DE ROSA-A. CESTARO (a cura di), Storia della Basilicata, 3. L'Età moderna, a cura di A. Cestaro, Roma-Bari, Laterza, 2002.
Nessun commento:
Posta un commento