Luigi La Vista nacque a Venosa il 31 gennaio 1826 da Nicola, medico, e da Maria Padrone. Primo di tre figli, crebbe in una famiglia modesta ma di buona levatura culturale e salda nella sua fedeltà alla tradizione rivoluzionaria e repubblicana; e quando a cinque anni perse la madre, si legò moltissimo al padre in cui trovò la comprensione di cui aveva bisogno il suo carattere sensibile, introverso e portato al pessimismo.
Nel 1836 entrò nel seminario di Molfetta per compiervi gli studi superiori. Inizialmente il La Vista si adattò bene al clima di un seminario che, tradizionalmente affidato a docenti assai validi, parve soddisfare in pieno il suo desiderio di apprendere; presto però avvertì con crescente fastidio il peso del conformismo gravante sui corsi e il servilismo cui gli pareva fossero costretti gli alunni.
Reagì chiudendosi ancor più in se stesso e rifugiandosi nelle letture più varie, affascinato soprattutto dalla poesia: trovò così in Leopardi "il diario di una buona parte della mia giovinezza" a ciò incoraggiato dal parallelismo che non tardò a scorgere tra l'infelice condizione umana del poeta e la propria sofferta vita interiore. Poi, sull'esempio di un amico molfettese, G. de Judicibus, che nel 1839 aveva recitato le sue rime in un'accademia letteraria tenutasi in seminario, dal 1842 anche il La Vista prese a comporre versi, quasi tutti influenzati dai modelli del romanticismo e dettati da un incontenibile desiderio di mettersi a nudo: temi prediletti erano la ricerca vana della felicità, il dolore come elemento costitutivo della vita umana, il presagio della fine imminente, il tormento dell'amore deluso; il tutto raccontato con qualche eccesso di ingenuità, cui va forse fatta risalire la successiva decisione del La Vista di dare alle fiamme le sue liriche giovanili che si sarebbero conservate solo grazie alle copie che ne avevano fatto gli amici.
Lentamente, in questa estetica della disperazione, si facevano strada intanto il motivo del patriottismo e la vaga aspirazione a un mutamento delle condizioni di vita delle genti meridionali. Avvertiti confusamente come retaggio della tradizione familiare, tali sentimenti si precisarono nel momento in cui, passato a Napoli nel 1844 per seguire i corsi di giurisprudenza all'Università, il La Vista, dopo un anno di studio improduttivo, cominciò a frequentare la scuola privata di Francesco De Sanctis.
Accanto a compagni di studio come Villari, De Meis, Marvasi e sotto la guida ferma di un De Sanctis ammirato dagli allievi per il suo metodo di insegnamento che ancorava l'ideale alla concreta realtà del fatto e sottolineava il valore civile della letteratura, il La Vista non rinunciò del tutto al bisogno di guardarsi dentro, ma cercò di soddisfarlo anche in relazione a ciò che aveva intorno e che sempre più gli appariva come il frutto di una situazione politica e sociale penalizzata dall'assenza completa di libertà. Le discussioni che avevano luogo nella scuola a completamento della didattica chiarivano poi, nel rifiuto di ogni astrattezza, il senso dello sviluppo storico come un processo affidato alla volontà e all'impegno di ogni individuo.
Perciò nei tre anni che precedettero il 1848 l'attenzione del La Vista si spostò verso i testi di storia, da quelli classici (Tucidide, Sallustio, Tacito: ne ricavava un forte disgusto verso la Roma imperiale) fino ai moderni (Machiavelli, Guicciardini); tra i contemporanei, la simpatia per Rousseau e Voltaire diventava calda ammirazione nei confronti di Thierry e di Simonde de Sismondi in quanto storico delle repubbliche
Il lungo lavoro di preparazione cominciò a concretizzarsi in forma di saggi critici all'inizio del 1848, allorché il La Vista scrisse, nel clima di attesa diffuso dalla lotte per l'indipendenza nazionale, la prefazione per una nuova edizione napoletana delle poesie di Giovanni Berchet, e quindi pubblicò due lavori: uno su Vittoria Colonna e i petrarchisti e uno Studio sui primi secoli della letteratura italiana (entrambi Napoli 1848): quest'ultimo era uno scritto di 40 pagine in cui la letteratura del Trecento, e Dante in particolare, erano posti a fondamento della nazionalità italiana. Più intimista era il contenuto di alcuni racconti (Angelo, quindi Abele) dove tornava l'antica propensione alla ricerca di se stesso e dove il personaggio di Abele "più che persona viva, [era] una statua lacrimante sopra un sepolcro". Ma il vero La Vista era ormai quello che entrava nella guardia nazionale, firmava con altri 208 cittadini un appello al re perché riportasse in vita la costituzione del 1820 e quindi, in un proclama a stampa diffuso all'indomani del 29 genn. 1848, celebrava il ritorno del regime rappresentativo. Perciò lo contrariò molto il processo involutivo in cui, dopo lo scoppio della guerra tra Austria e Piemonte, parve voler entrare la monarchia borbonica con le sue esitazioni sull'invio delle truppe al Nord e con il successivo braccio di ferro sullo svolgimento liberale della costituzione. Quando il 15 maggio 1848 a Napoli si alzarono le barricate, il La Vista non esitò a scendere in piazza insieme con il padre che lo aveva raggiunto da Venosa: la repressione armata affidata ai mercenari svizzeri lo colse a largo della Carità, dove, bloccato mentre tentava di fuggire, fu immediatamente fucilato.
Il 28 maggio i suoi amici della scuola diramarono una "Protesta" per difenderne la memoria: era l'inizio di una sorta di beatificazione che avrebbe fatto di lui uno dei simboli più alti dell'incompatibilità tra il mondo della cultura e il regime borbonico.
FONTE: voce di G. MONSAGRATI in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2005, vol. 64
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