È la storia straordinaria che il Vulture ha da raccontarci sin dai tempi più remoti. Una tappa obbligata nelle significative pagine della storia umana è quella che facciamo oggi a Rapolla, alla riscoperta di un antico sarcofago.
Fino a non molto tempo fa, lo studio dei sarcofagi riguardava solamente quelli ritrovati in area urbana, con qualche sporadico accenno a rinvenimenti e produzioni da altre regioni italiane. Solo a partire dagli anni '80, si inizia a prendere in considerazione la documentazione, scarsa e sporadica, dei rinvenimenti di sarcofagi da una molteplicità di ambiti regionali relativamente alla documentazione degli insediamenti e delle forme collegate di proprietà.
All’interno di questa nuova ondata di ricerche fondamentale è lo studio di Ghiandoni sul (cosiddetto) sarcofago di Melfi, un vero e proprio “caso da manuale” rinvenuto, in realtà, nella contrada Albero in Piano in agro di Rapolla (PZ), precisamente nei pressi della fiumara del Rendina, nel maggio del 1856 e conservato attualmente nel Museo Nazionale del Melfese all’interno del castello normanno-svevo della città federiciana.
C’è da dire, tuttavia, che il sarcofago appena rinvenuto, prima di “approdare” all’attuale ubicazione, venne esposto a Melfi, in quanto sede di Sottoprefettura, per lunghi anni in piazza Municipio senza alcuna precauzione, alla mercé degli agenti atmosferici. In seguito per un altro periodo venne tenuto in uno scantinato del Palazzo Vescovile tanto che tale “aberrazione” viene citata in un importante volume sulla scultura romana: D.E.E. KLEINER, Roman Sculpture, New Haven 1992, p. 306.
Scavi effettuati da una missione inglese del 1971, nella stessa zona di Rapolla, hanno portato alla luce alcuni ambienti di servizio di una villa, un piccolo edificio termale con un mosaico in bianco e nero con raffigurazioni zoomorfe nel frigidarium databile al II d.C. Si è proposto, così, di attribuire il sarcofago ai proprietari della villa ritrovata.
Il sarcofago era ubicato all'interno di un mausoleo, una camera funeraria a pianta quadrangolare di ca. m. 8 x 8 con un basamento di laterizio sul muro di fondo, dell'altezza di ca. m. 1, 30 su cui era posto il manufatto, che faceva parte della villa nel territorio a sud-ovest di Venosa. Il sarcofago era riverso su di un lato e protetto negli altri da muratura in laterizi. Internamente presentava ancora un teschio con tutti i denti, un femore ed alcuni resti ossei.
Non abbiamo nessuna informazione sul complesso abitativo di Albero in Piano, tuttavia la villa della II fase (150-250 d.C.) scavata a Masseria Ciccotti ad Oppido Lucano può probabilmente fornirci un'idea, seppur soltanto indicativa, dell’imponenza del suo impianto architettonico.
Si tratta di uno dei più antichi sarcofagi di tipo asiatico a noi noti, datato intorno al 170 d.C. e prodotto in una bottega dell'Asia Minore (il marmo proviene dalle cave di Docimion, in Frigia); è da sottolineare che esso costituisce uno dei tre esemplari rivenuti nel Mezzogiorno d’Italia, importati dall'Asia Minore, senza l’intermediazione della capitale. Sembra cosa da nulla ma si deve tener presente che il totale dei sarcofagi asiatici importati in Italia tra II e III secolo d.C. ammonta a non più di 25-30 esemplari.
L'acconciatura “all'ultima moda” della donna scolpita nella parte superiore, secondo i canoni della ritrattistica imperiale, si rifà alla capigliatura pettinata secondo il modello di Agrippina Minore, madre di Nerone. Non va sottaciuto, altresì, che probabilmente in questo caso specifico, però, il ritratto sia stato desunto dai modelli iconografici di Faustina Minore, moglie di Marco Aurelio e le sembianze della defunta rappresentata distesa sul letto funebre, come da coperchio del sarcofago, siano state rifinite, su specifiche indicazioni del committente, in un momento successivo.
Per quanto concerne la Lucania, il caso analizzato del sarcofago di Melfi, in mancanza di un’iscrizione dedicatoria, è stato considerato solo ed eccezionalmente in relazione alla committenza, quale manifestazione di rilevante livello di arte colta con una predilezione per le rappresentazioni mitologiche. Ghiandoni vi ha giustamente identificato, nelle figure rappresentate in nicchie architettoniche sui quattro lati del sarcofago, una sequenza di dei ed eroi con probabili allusioni alla guerra di Troia e soprattutto sul lato anteriore la raffigurazione della divinità femminile armata che scrive la vittoria sullo scudo, simbolo privilegiato della propaganda imperiale, è, tra l'altro, rivitalizzata nella propaganda di età antonina.
In via generale le caratteristiche del sarcofago lo connettono ad un personaggio dell'aristocrazia senatoria, per di più appartenente ad una famiglia che aveva contatti privilegiati con la casa imperiale e per il quale non sarebbe senza fondamento ipotizzare rapporti con l'ambiente dell'Asia Minore che giustificherebbe la scelta accordata a un tale sarcofago. A tal riguardo non si esclude la possibilità che potesse trattarsi di un personaggio appartenente alla nota famiglia lucana dei Brutii Praesentes. Come osserva Cervellino, il Dadi e lo Smith identificarono nella giovane scolpita sul coperchio di detto sarcofago, un’appartenente addirittura alla Gens Cornelia, una figlia di Cecilia Metella, consorte di Lucio Cornelio Silla, famiglia trasferita a Venosa all’epoca della colonizzazione romana.
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