mercoledì 13 marzo 2013

I rei di Stato lucani del 1799. 4. Val d'Agri: l'ora delle municipalità

Il 19 gennaio 1799, al solo annuncio che il generale Championnet con l'armata francese era in marcia verso Napoli, ad Avigliano numerosi borghesi, popolani e religiosi si riunirono inneggiando alla libertà e all'uguaglianza. Il 23 gennaio 1799 la truppe francesi, superate le resistenze dei lazzari, cioè della plebe realista militarmente organizzata, entrarono in Napoli, dove già da due giorni i giacobini avevano proclamato la Repubblica napoletana.
In contrapposizione all'albero della libertà, simbolo dell’avvenuta repubblicanizzazione, troviamo la croce dei sanfedisti, che formavano la cosiddetta «Armata Cristiana e Reale», comandata dal cardinale Fabrizio Ruffo, vicario del re, incaricato di organizzare la controrivoluzione.
Il primo dei simboli repubblicani ad essere colpito era proprio l'albero, che veniva abbattuto, bruciato e sostituito dalla Santa Croce; le insegne, coccarde e bandiere repubblicane venivano distrutte e nuovamente sostituite dalle insegne regie, e di nuovi si celebrava il Te deum, questa volta in onore della Monarchia. Considerato che lo scontro tra sanfedisti e repubblicani aveva assunto gli aspetti di una guerra civile, al di fuori di regole militari, è ragionevole supporre che da ambo le parti ci siano stati episodi di rilevante violenza, anche se gli aspetti più tragici siano stati ingigantiti dall'immaginario popolare.
Il primo albero della libertà fu innalzato il 3 febbraio a Potenza e fu benedetto dal vescovo Serrao. La democratizzazione della città ebbe vita molto effimera, anche perché cominciò a diffondersi nel popolo potentino uno stato di delusione: i contadini attendevano la divisione delle terre, un provvedimento che non venne attuato immediatamente, sicché, l’albero fu abbattuto il 24 febbraio, con la barbara uccisione del vescovo Serrao.
Fin dai primi giorni di febbraio l'innalzamento dell'albero della libertà si estese rapidamente nella parte meridionale della Basilicata. In Val d'Agri, fu Montemurro il primo centro a democratizzarsi ad iniziativa del commissario Francesco Antonio Ceglia. Seguirono San Chirico, Viggiano, Moliterno, Sarconi, Marsicovetere, San Martino, Tramutola, Spinoso e Saponara. I centri di più solida fede repubblicana furono Moliterno e San Chirico: nel primo operò un giovane studente universitario, Domenico Cassino, nel secondo la figura emergente fu Giuseppe Magalli.
Non mancarono, però, in questa zona elementi di spicco votati alla causa borbonica. Di questi ricordiamo Michele Parisi, Michele Ceramelli di Marsicovetere e Antonio Durante di San Chirico, destinato a diventare uno dei referenti ufficiali del cardinale Ruffo con l'incarico di Comandante Generale delle forze sanfediste per il comprensorio della Val d'Agri e del Lagronegrese. Eppure in quest'area avevano dato adesione alla causa rivoluzionaria il vescovo di Marsico Nuovo, Bernardo Maria La Torre, l'arciprete di Marsicovetere, Flavio De Marino, quasi tutti i feudatari della zona: Girolamo Pignatelli di Moliterno, Capitano del Popolo e componente del Governo Provvisorio di Napoli; Vincenzo e Diego Pignatelli del Vaglio, principi di Marsico Nuovo; Giovanni e Giuseppe Riario Sforza, marchesi di Corleto; Tommaso Sanseverino, conte di Saponara; e Francesco Caracciolo, duca di Brienza.
In Basilicata, dove era stata opposta strenua resistenza alla avanzata sanfedista (eccetto la Val d'Agri), fu inviato, come visitatore, il marchese della Valva, che iniziò la propria attività poliziesca diretta ad individuare e a punire i nemici della corona.
Suddivisa la provincia in vari “riparti”, in ognuno di questi fu delegato un assessore con il compito di procedere alla cattura dei rei. A differenza delle altre province del Regno, in Basilicata il movimento repubblicano aveva assunto vaste proporzioni e, con l'ausilio delle forze contadine, aveva coraggiosamente resistito alla avanzata sanfedista. Di conseguenza, il visitatore destinato in Basilicata dovette indagare non soltanto tra la borghesia, ma anche e sopratutto nel ceto contadino che, con gli esponenti della borghesia radicale, aveva attivamente partecipato alla resistenza opposta agli uomini di Ruffo e di Sciarpa.
I vari assessori chiamati ad indagare sulla attività svolta da ogni cittadino durante i fatti del 1799 ricorsero ad ogni mezzo perché nessuno rimanesse impunito, al repubblicano che denunciava i suoi compagni era promessa l'impunità, al delatore premi, cariche, impieghi. Completato l'elenco dei «rei di Stato», ben 1307 cittadini, in gran parte popolani, furono schedati come nemici della Corona e i loro nomi distinti per paese. Successivamente, quando al marchese della Valva subentrò, come visitatore, Gaetano Ferrante, l'elenco fu completato.
A Sant'Arcangelo furono schedati diversi repubblicani, il più importante dei quali fu Francesco Scardaccione, che nel gennaio del 1799 promosse la Costituzione della Municipalità Repubblicana in Sant'Arcangelo. Di tendenze moderate, si oppose alla promessa spartizione delle terre demaniali a quella popolazione. L'atteggiamento assunto dallo Scardaccione provocò una violenta e sanguinosa manifestazione popolare: il 24 febbraio 1799 venne minacciato il saccheggio dell'abitazione dell'arciprete Francesco Satriani ed invasa quella dei fratelli Giuseppe e Carlo Pastore e quella del notaio Michele Torraca ove vennero massacrati una figliuola sedicenne, Cherubina, ed un cognato del Torraca, Nicola Maria Ferrara. Per opporsi alla corrente radicale del partito repubblicano, lo Scardaccione prese contatti con Filippo Durante, che da San Chirico Raparo organizzava le forze sanfediste della regione ed il 5 marzo 1799, riuniti in casa dell'agente del principe di Stigliano, dottor Simone Izzo, l'arciprete Satriani, il dottor Giovanni Andrea Giocoli e altri preti e galantuomini, decisero a unanime di scuotere la repubblica e sottomettersi al Governo del Monarca e, con una azione di forza, recisero l'albero della libertà innalzando, al suo posto, la croce. Nonostante questo suo atteggiamento, Francesco Scardaccione venne incluso nel Notamento dei Rei di Stato.
A Missanello, Giuseppe Pandolfo aveva, precedentemente al 1799, promosso in Missanello una manifestazione popolare diretta ad occupare un bosco di proprietà di quel clero. Deferito al Tribunale Militare di Basilicata per la sua partecipazione ai fatti svoltisi in Missanello nel 1799, venne incluso nel Notamento. Anche Michelangelo Pandolfo venne deferito alla Regia Udienza Provinciale per violenze consumate a Missanello nel 1799. Il terzo dei Pandolfo, Senatro Antonio, aveva partecipato, precedentemente al 1799, alla manifestazione popolare diretta all’occupazione del bosco di proprietà del locale clero del suo paese. Partecipò, inoltre, alla difesa armata contro la forze sanfediste e fu ferito in uno scontro a Sarconi. Per la sua partecipazione ai fatti del 1799 venne deferito anche al Tribunale Militare di Basilicata per rispondere tra l'altro, di “assassinio”.
A Gallicchio, spiccano diversi nomi: Nicola Conte Nicola, il medico Leonardo Robilotta e Fulgenzio Gaudioso, padre Agostiniano di Gallicchio, che girò i centri della zona con il Commissario Antonio Salvadore e, addirittura, propose alle monache di Muro se volessero uscire dal monastero.
Altro ecclesiastico “repubblicano” fu, a Roccanova, l’arciprete Vito Nicola Tornese, che, tra l’altro, fece togliere dalla chiesa i ritratti dei reali, si occupò di insegnare al popolo i principi repubblicani.
Notevole fu l’attività dei repubblicani di Senise: Scipione Andreotti, Domenico Cascino, Giovanni Cristiano, Giovanni Battista Crocco, Nicola Crocco (quest’ultimo già nei quadri dirigenti della locale università con Francesco Antonio Ceglia), promotori delle prime manifestazioni popolari della Municipalità. Fu, però, Pasquale Antonio Crocco, fratello di Nicola, a convocare il Parlamento per la piantagione dell'albero, insieme al dottore fisico Pasquale della Ratta, il quale improvvisò una serie di canti repubblicani. Suo fratello Nicola, sacerdote, trasferitosi a Napoli, fu esiliato a Marsiglia.
Vincenzo Maria Fortunato, sindaco nel 1773, era legato da amicizia con il dottore Francesco Antonio Ceglia, sin dall'epoca in cui questi era governatore di Senise e, grazie alle notizie del figlio, studente a Napoli, mantenne i contatti tra Senise e la capitale. Tra i repubblicani senisesi fu anche Giosuè Sole, nonno del poeta Nicola.
Il sacerdote Giuseppe Antonio Sole, invece, fu tra i promotori dell’innalzamento dell'albero della libertà, oltre ad infiammate prediche pubbliche «encomiando lo Stato democratico».
Da questo elenco è ben evidente che il centro più attivo nel movimento repubblicano fu Senise, in un contesto di generale debolezza della Val d’Agri, segnato da profonde divisioni sul problema della terra e da un più incisivo svolgersi della controffensiva sanfedista.

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