giovedì 29 dicembre 2016

La Basilicata contemporanea. 17. Potenza postunitaria

Fin dalla prima metà del Settecento Potenza era ritenuta “una delle cittadine più progredite dell’allora provincia per il numero degli uomini di lettere e per le condizioni generali della sua popolazione”, seppur mal collegata con il resto della provincia e del Regno. Dunque, la scelta di Potenza capoluogo non fece che evidenziare politicamente la positiva impressione dei francesi per la cittadina arroccata lungo la collina, centro periferico ma già connotato da significative presenze d’ordine culturale.
Questa scelta avrebbe rappresentato un fattore determinante nella percezione stessa del contesto urbano, che non presentava specifici connotati non solo a livello d’esercizio di funzioni, ma anche di quadri istituzionali-amministrativi e socio-economici.
Nel Catasto provvisorio del 1813 vennero censiti ben 493 sottani di cui 45 in via Pretoria. Questi tuguri furono abitati fino alla prima metà del 900. 
La città di Potenza nel corso di tutto l’Ottocento  s’ingrandì molto, ma la maggior parte della gente continuò a vivere in condizioni miserevoli; scarsi continuarono ad essere gli scambi tra il capoluogo e i paesi dell’hinterland materano e i paesi del potentino sud-orientale.

“Abita la più gran parte del popolo in sottani in cui vi si scende per cinque, o sei gradoni, i quali non sono comodi né salubri, non sono ventilati, mancando la più gran parte di finestre. Non sono mantenuti con nettezza tenendovi i polli, il porco e spesso l’asinello. Il focolare è in un angolo, e qualche volta con cacciafumo, vi si bruciano legni selvaggi e sarmenti. Cause dell’insalubrità dell’aria. Angustia e succidezza delle case. Strade in parte anguste e immonde. Letamai alle mura dell’abitato. Cadaveri delle bestie, che si lasciano per ogni dove insepolte. Numerose stalle, e macelli tenuti senza nettezza. […] Nel centro abitato si fa uso di acque che sgorgano in pozzi scavati a una certa profondità […] sono fabbricati chiusi senza intonaco […] l’acqua ha un cattivo odore di chiuso, il sapore è salmastro e nausaoso”.

Dopo l’Unità la città di Potenza fu sempre più principale luogo d’espletamento di attività politico-istituzionali, sede del nuovo Consiglio provinciale oltre che del Consiglio comunale, particolarmente caratterizzati nei primi anni postunitari dai riflessi conseguenti alle modalità attuative del processo di unificazione nazionale. La Potenza dell’ultimo quarantennio del secolo impugnò, quindi, i vessilli della storia, del diritto e della cultura per difendere, da un lato, la visione – si direbbe politically correct – della classe dirigente, dall’altro una più obiettiva ricostruzione del puzzle storico, sociale ed economico dell’intera Basilicata. La città, sede anche dei nuovi uffici amministrativi, fu rappresentata nel Consiglio provinciale nel 1861 da Nicola Lombardi e nel Parlamento unitario da Saverio Rendina, eletto al primo turno. Nominato senatore, Rendina si dimise nel 1863. Nelle nuove elezioni risulto vincitore al ballottaggio Giuseppe D’Errico contro Emilio Petruccelli. Le classi dirigenti potentine del secondo Ottocento continuarono, del resto, seppur con modi e forme nuovi, quella “strumentalizzazione della storia” che era stata una delle direttrici della cultura d’età moderna espressasi nelle storie municipali del Regno e che la Basilicata, frantumata e periferica,
non aveva colto che in minima parte, compresa Potenza.
In tali primi anni unitari anche la città fu insistentemente minacciata da possibili assalti da parte dei briganti, per difendersi dai quali ospito i contingenti militari e la Guardia nazionale. Fra il 1862 e il 1863 vi svolse i suoi lavori la Commissione d’inchiesta sul brigantaggio. Già nel 1861, quando fece registrare al primo censimento unitario 16.036 abitanti, la città divenne altresì sede della sezione distaccata della Corte d’appello di Napoli, sempre più solidamente confermando il suo baricentrico ruolo istituzionale, per il cui adeguamento furono avviati i vari piani per la fornitura idrica e la rete fognaria, con ampliamento stradale e insediativo. Nell’ambito dell’intricata questione demaniale, con l’Unità furono quotizzati il bosco di San Gerardo e i demani Chiancale, Bandito, Bufala e Verderuolo, con attivo coinvolgimento di circa 260 contadini, ma intanto la stessa politica sociale cittadina, verso la quale particolare attenzione volsero Giacomo Racioppi, Emilio Maffei e Rocco Brienza, si andò riconfigurando su posizioni moderate. Di fatto le originarie posizioni risorgimentali si andarono dissolvendo, mentre l’operato politico si appiatti su posizioni moderate e filogovernative, dinamica accuratamente reinterpretata e rappresentata, negli anni settanta, dal sindaco Nicola Branca, fratello del più noto parlamentare Ascanio, che assunse anche posizioni protezionistiche. Continuavano a persistere, intanto, carenze immobiliari per abitazioni e uffici, oltre che precarie condizioni igieniche e sanitarie. Una condizione, questa, rispetto alla quale nel 1883, quando la popolazione raggiunse i 20.353 abitanti, fu approvato un incisivo piano regolatore per l’ampliamento cittadino, per nulla rispettato. A fine secolo si aggiunsero i riflessi della ben nota crisi economica generale, mentre si andava “dissolvendo” la classe dirigente più direttamente figlia delle tradizioni risorgimentali. Tra le nuove figure politico-istituzionali vi furono quelle di Francesco Saverio Nitti ed Ettore Ciccotti. 
Ai tradizionali ceti di possidenti e “imprenditori” cittadini all’inizio del XX secolo se ne andarono sostituendo di nuovi, che non solo avevano rilevato le proprietà dei precedenti, ma si erano anche distinti nel commercio, nell’imprenditoria, nel credito e negli appalti pubblici. 


giovedì 22 dicembre 2016

Personaggi. 17. Carlo Pisacane a 160 anni dalla spedizione di Sapri

Parlare di parabola del democratismo significa ripercorrere sessant’anni di percorsi spesso tortuosi, di stop and go e di progetti che, a partire dal 1799, coinvolsero le file più operative dei patrioti meridionali, quelle “seconde file” che, in modi e forme strettamente legate al territorio ed ai legami parentali e clientelari, avevano, quando più, quando meno, contribuito all’operatività delle diverse rivoluzioni succedutesi nel Mezzogiorno d’Italia e, in particolare, nelle aree interne: dalle municipalità repubblicane del Novantanove (con il notevolissimo esperimento del “Patto di Concordia” nell’area nordovest della Basilicata) alle azioni dei democratici delle zone di Calvello, Laurenzana e Potenza nello “strascico” della Rivoluzione del 1820-21 al contrasto tra democratici di Emilio Maffei e Ferdinando Petruccelli della Gattina e moderati di Vincenzo D’Errico nel biennio 1848-1849.  
Il democratismo, anche nella provincia di Basilicata, era, quindi, diffuso ed aveva reti radicate su tutto il territorio, come evidenziato dal lavoro della Gran Corte Criminale, anche se il processo “potentino” e quello a carico degli associati lucani della Setta dell’Unità Italiana coinvolgevano principalmente il capoluogo. Le reti associative, infatti, riguardavano Potenza come testa di ponte verso le province vicine o, come nel caso di Maffei, in direzione di Napoli. Il processo, che coinvolgeva, altresì, i comuni di Missanello, Gallicchio, Armento, Montemurro e Corleto risponde a dinamiche diverse, come tentativo di stabilire una collaborazione tra i centri della Val d’Agri con l’intento di fermare i soldati borbonici di Auletta.
La rete coinvolgeva centri limitrofi con obiettivi strategici di “reti” di un web che contava su forze limitate ma tangibili, dando luogo, nei fatti, ad un esperimento di organizzazione più capillare in vista dell’unificazione e che, come ho avuto modo di evidenziare in altre sedi, avrebbe avuto il suo successo nella rivoluzione del 1860.
La spedizione di Carlo Pisacane del 1857 risulta, in tale contesto, un “fallimento” emblematico di tali “esperimenti” di stampo democratico: l’estrema velocità con cui sorse e tramontò, infatti, rispecchia l’idea della rivoluzione rapida, che basava molto sull’effetto sorpresa e la lenta risposta delle autorità borboniche. Eppure, in questa sede, risulta utile ripercorrerla proprio per liberarla dalle “incrostazioni” sedimentatesi a partire dagli anni Sessanta dell’Ottocento, quando Pisacane assurse agli onori del “martirio” da parte di autori moderati come Giacomo Racioppi, che ne tracciò la parabola per mostrare in Pisacane non tanto un idealista, quanto, piuttosto, l’estremo rappresentante di quell’ideologia di “operatività fulminea”, come potrei definirla, che aveva prodotto esperimenti, come dicevo, di notevole rilevanza ma che, come si era visto, avevano radici troppo poco solide per avere presa sul territorio. D’altro canto, il canone risorgimentale si appropriò di questo tentativo democratico per mostrare come “gli altri” avevano fallito nel preparare la rivoluzione, fidando sulle idealità di una rivoluzione ideologica troppo distante dai modi e dalle esigenze popolari, rispettate nel corso del 1860 dall’epopea garibaldina. 
Le fondamenta della spedizione furono preparate, com’è noto, nel 1855 a Napoli, quando venne fondato il Compartimento del Sud, un gruppo d’ispirazione mazziniana guidato dall’esule Nicola Fabrizi. Il Comitato, ispirato dalle idee repubblicane, iniziò a prendere contatti con le province di Salerno e di Basilicata, dove i contatti erano i fratelli Nicola e Giacinto Albini, Fortunato Giliberti e Giovanni Matera.
Ad intuire la possibilità di un’azione su queste province, sfruttando la spinta delle rivendicazioni contadine, fu, dalla fine del 1856, Carlo Pisacane, sostenitore di un’azione rapida, al fine di evitare la riorganizzazione delle milizie e la necessità di colpire i centri strategici prima che si chiudessero per difendersi.
Il 1857 fu, dunque, l’anno dell’azione, a partire dal primo bimestre, quando Pisacane, informato del lavoro del Compartimento del Sud, vi entrò in contatto con esso, anche perché l’azione dei fratelli Albini, suoi conoscenti, stava facendo ben sperare nel supporto di una rete associativa forte e ben organizzata. I contatti so-no testimoniati, come afferma Racioppi, da un fitto carteggio, anche se Pisacane si discostava in maniera peculiare dal progetto mazziniano, che individuava in Genova e Livorno le città che avrebbero dovuto supportare la rivoluzione.
Per il patriota napoletano, il Mezzogiorno, invece, sembrava una soluzione plau-sibile, tanto che le sue pressioni avevano convinto Mazzini che, da Londra, faceva prsente come l’unico freno fosse la consapevolezza di una più profonda prepa-razione, per non compromettere l’intero movimento.
La preparazione logistica fu spostata, comunque, proprio nella Val d’Agri e nel Vallo di Diano, dove operavano, rispettivamente, gli Albini e Vincenzo Padula: inoltre, il golfo di Policastro pareva più percorribile, con la previsione di tappe intermedie per recuperare armi e uomini. Infatti, sbarcati a Sapri, gli insorti avrebbero risalito il Vallo per raccogliere drappelli locali, per poi dirigersi verso Auletta, punto di raccolta dei drappelli del Potentino e ripartire alla volta del Cilento, di Avellino ed Eboli, verso Napoli. Tuttavia, vero punto di forza era considerata l’insurrezione della Basilicata, provincia nella quale si sarebbero raccolti, a tempo debito, i patrioti Pateras, Rosiello e Cosenz con drappelli da tutte le zone della provincia.
Tuttavia, Giacinto Albini sollevò subito delle perplessità su Auletta come punto di raccolta, in quanto in luogo troppo aperto rispetto alle naturali fortezze montuose della Basilicata e l’insurrezione non aveva un cronoprogramma definito. In realtà, i dubbi di Albini erano fondati, come risultò dal fatto che l’esperimento d’insurrezione, preventivato improvvisamente nel periodo tra aprile e maggio, non si avviò per la mancanza di un battello con il quale sbarcare a Sapri, dovuta alla mancanza di fondi. Inoltre, una fuga di notizie aveva portato all’arresto di alcuni congiurati il 16 aprile: infatti la corrispondenza di Vincenzo Padula con lu-cani e calabresi fu intercettata dalla gendarmeria di Montemurro e lo stesso Padula venne trattenuto e, poiché egli era l’unico referente delle direttive per la provincia di Salerno, si dovette scegliere una nuova data, spostata al 13 giugno. Pasquale Magnone, uomo di fiducia del Comitato a Sapri avrebbe fatto da guida e informatore; tuttavia, nella notte tra l’8 e il 9 giugno, la goletta di Rosolino Pilo, già requisita, affondò al largo di Genova, con munizioni e fucili. Il Mazzini, a quel punto, autorizzò la partenza di Pisacane per Napoli, dove arrivò proprio il 13 giugno e, in accordo con il Comitato, cercò una soluzione per trasportare nuove armi, fornite dal Fabrizi, dal porto di Castellammare a Pantelleria.
Espletati gli ultimi preparativi, si stabilì il 25 giugno come data d’azione in cui Pisacane, a capo di circa due dozzine di insorti, avrebbe dirottato il Cagliari, barca della compagnia Rubattino, sostando nell’isola di Ponza, per liberare e arruolare i carcerati della prigione borbonica, requisire armi e munizioni. Il giorno successivo alla partenza una lettera avrebbe informato Napoli ed effettivamente il 26 venne data la notizia ma, per un “effetto latenza” non calcolato, la missiva giunse a Napoli nella tarda sera del 27.
Inoltre, Fanelli non riuscì ad avvertire della mancata partenza del veliero contenente le armi da Castellammare; non si ebbe la notizia della mancata informazione delle province interessate e, ancor peggio, Magnone aveva ricevuto la notizia solo il 29, sicché nessuna guida li avrebbe attesi a Sapri, mentre Pateras e Rosiello, che si erano diretti verso la Basilicata, vennero respinti da posti di blocco.
Il 25 giugno Pisacane, Nicotera e Falcone si imbarcarono sul Cagliari con altri ventuno insorti e, due ore dopo la partenza, dirottarono, facendo rotta verso Portofino dove aspettavano Pilo, venti uomini e le armi. Tuttavia, i due gruppi non si incontrarono mai a causa della nebbia era troppo fitta: tuttavia, i tre capi sul Cagliari convennero di procedere, rifornendosi in seguito a Ponza, dove giunsero il pomeriggio del 27. Scesi al porto un gruppo attaccò immediatamente il posto di guardia doganale e un secondo drappello salì nella piazza al grido di «Viva l’Italia, Viva la libertà», riuscendo a liberare i reclusi, vista la scarsa resistenza dell’esigua guarnigione locale: ripartirono in 323, ma, contrariamente ai progetti, i volontari non avevano trovato né l’ampia schiera di insorti che ci si aspettava, né armi e munizioni sufficienti. 
Inoltre, la possibilità che le autorità borboniche venissero informate si trasformarono quasi in una certezza: alcuni militi fuggiti dopo l’assalto all’isola raggiunsero Gaeta il 28 e, il giorno dopo, la gendarmeria di Caserta inviò rinforzi.
Intanto, la sera del 28, lo sbarco a Sapri fu un altro colpo, poiché ad attenderli non c’era nessuno, dato che Magnone, come detto, non aveva potuto allertare i contatti cilentani. Il giorno dopo, da Sapri i trecento si spostarono verso la vicina Torraca, dove molti erano fuggiti verso le campagne per paura del loro passaggio e chi non aveva avuto il tempo di abbandonare l’abitato era rimasto barricato in casa. Da Torraca, il drappello si spostò verso il Fortino, crocevia tra la Principato Citra e Basilicata, dove furono accolti da pochi uomini.
A quel punto, restavano due soluzioni: la prima prevedeva di passare attraverso la Basilicata per reclutare uomini secondo il modus operandi mazziniano, come suggerito da Nicotera e Falcone; oppure seguire il piano prestabilito, risalire il Vallo di Diano e raccogliere i volontari, passare per il Lagonegrese per unirsi ai patrioti locali, fare rotta su Auletta e rispettare il rendez vous con i volontari potentini per poi puntare su Napoli via Eboli.
Pisacane decise di seguire un cammino diverso, avviandosi su Padula, dove, confidava, la spinta rivoluzionaria avrebbe potuto scatenare un moto di popolo. Tuttavia, per toccare il territorio di Padula bisognava attraversare prima Casalnuovo, che, comunque, rimase inerte.
La sera del 30 il drappello giunse a Padula, dove, grazie a segnali incoraggianti dai contatti, ci si aspettava una situazione migliore e, quindi, un possibile sconvolgimento delle forze a disposizione. In contemporanea, sul fronte delle forze borboniche, i movimenti per intercettare gli sbarcati a Sapri erano quanto mai decisi, come evidenziato dai rapporti conservati negli archivi di Salerno e Potenza e nell’archivio comunale di Sala, che ho potuto consultare in aggiunta a quanto già noto. Grazie al supporto del telegrafo, infatti, gendarmi e guardie nazionali si erano riunite nella zona di Trinità di Sala, comandate dal maggiore De Liguori, che, comunque, aveva potuto raccogliere poche guardie urbane, impegnate nella zona sottostante Sala per il raccolto.
A Padula, solo una dozzina di uomini tra preti e “galantuomini” li attendeva, raccolta dai fratelli Scolpini. Il Pisacane e i suoi capicolonna si riposarono, dopo aver mangiato i pochi viveri forniti in tale centro e venendo assicurati che si sarebbero trovati altri volontari il mattino seguente e la possibilità di forgiare proiettili con il piombo reperito in loco.
La mattina del 1 luglio i rivoltosi, infatti, si recarono nelle officine di Pietro Volpe e forgiarono le munizioni, mentre altri girarono per il centro abitato alla ricerca di viveri. Ma intanto De Liguori aveva radunato gli uomini a sua disposizione muovendo da Sala verso la vicina Padula. A quel punto, Pisacane schierò le sue forze, facendoli dislocare sulle colline di San Canione: tuttavia, 53 degli insorti caddero, con solo quattro perdite di parte borbonica, mentre i restanti si davano alla macchia. 
Un nucleo di circa novanta uomini si strinse attorno a Pisacane, dirigendosi, lungo i boschi di castagne, verso Buonabitacolo, fino a portarsi in prossimità di Sanza, raggiunta il 2 luglio. Un rumore cupo, accompagnato dalle campane suonate in segno di allarme, li interruppe e, senza il tempo di orientarsi, una folla armata di arnesi da campo e armi improvvisate, li travolse. I pochi sopravvissuti cercarono inutilmente la fuga: nei giorni successivi tutti furono rintracciati dalle autorità regie e arrestati, mentre lo stesso Pisacane cadeva finito a bastonate, accolto come un brigante, secondo le notizie diffuse dalla Sottintendenza di Padula.
Come detto, l’interpretazione che si diede di questa “morte annunciata” fu, come detto, da subito falsata da un lato o dall’altro: un martire, certamente riconosciuto, della causa unitaria, ma un martire idealista. Eppure, come ben rilevava Antonio Gramsci nel Quaderno 17 (IV, § 28), non bisogna considerarlo, come già faceva Adolfo Omodeo, un «frammento del 48 francese inserito nella storia d’Italia», in quanto il rapporto tra Pisacane e le masse plebee va visto nell’espressione di tipo giacobino. Non gli va rimproverata una mancanza di programma, poiché in Pisacane non ci furono programmi definiti, quanto piuttosto una «tendenza generale» più definita che in Mazzini. Ogni specificazione «concreta» di programma e ogni determinazione del processo tecnico per conseguirne i punti presuppongono un partito selezionato e omogeneo, che mancava sia a Mazzini che a Pisacane. Anche per la visione strategica della rivoluzione unitaria, non si tratta, come fatto già da Racioppi, di contrapporre Pisacane a Mazzini, quanto a Gioberti, che aveva una visione strategica non nel senso strettamente militare, quanto piut-tosto politico-militare. Nel 1860 la situazione era completamente mutata e bastò, come affermava Gramsci, la passività per immobilizzare i Borbone, mentre nel 1857 la passività e i quadri sulla carta erano inefficienti, data una mutata situazione «internazionale», perchè, in effetti, il successo della rivoluzione del 1860 dipese da questo mutamento, visto che, come ancora rilevava Gramsci, come organizzazione nel ‘60 si stesse peggio che nel ‘57 per la reazione avvenuta. Di fatto, la vicenda di Pisacane fu l’occasione per i moderati, anche quelli che osservavano dall’estero, di imporre il proprio punto di vista per un’arma più sicura verso l’Unificazione: la diplomazia.

giovedì 1 dicembre 2016

Materiali didattici. 28. A margine di A. Musi, “Mito e Realtà della Nazione Napoletana” (Maria Lippo)

Il recente testo di Aurelio Musi, Mito e Realtà della Nazione Napoletana (Napoli, Guida, 2016) affronta una realtà storica che andò, di fatto, configurandosi dall’Umanesimo all’Unità d’Italia durante i secoli di sviluppo del Regno di Napoli, poi delle Due Sicilie dal 1816. Fu la rappresentazione dell’autocoscienza e del sentimento di appartenenza ad una comunità politica, la nazione-Regnum, con caratteri distintivi: la fedeltà alla sovranità monarchica, il primato della Capitale che andò sempre più identificandosi con l’intero Regno, l’accelerazione del livello della decisione politica rispetto al ruolo e al peso delle forze economiche e sociali. Nella lunga e complessa transizione dagli antichi Stati all’unificazione della penisola, il sentimento della doppia appartenenza, della doppia patria, napoletana e italiana, fu assai presente e vivo in forze e gruppi meridionali che parteciparono al Risorgimento.
Musi si incentra sulla considerazione ed opportuna analisi della “nazione napoletana”, appunto, configuratasi nella città di Napoli considerata in luce “totalizzante” – letta e riportante la definizione intrinseca della visione intesa come “parte del tutto”.
Al fine di descriverne opportunamente le dinamiche, l’autore individua una triade di percorsi paralleli di tipo funzionale, destinati a conferire tre aree semantiche all’aspetto storico e socio-culturale della suddetta ‘nazione napoletana’. La triade individuata dal prof. Musi consiste nei seguenti percorsi:
1. Percorso della Nazione Regnum
2. Percorso della costruzione/realizzazione del Mito ‘Motore’;
3. Percorso relativo all’invenzione della Tradizione.
In relazione alla triade così definita, il percorso della Nazione “Regnum” designa la realtà della Penisola, caratterizzata da una durata plurisecolare, iniziata nel 1130 in virtù della fondazione del Regno Normanno, giungendo sino al 1861, memorabile evento corrispondente all’Unità d’Italia.
La definizione conferita dal prof. Musi consiste nell’importanza proveniente dall’analisi del dato materiale ben supportato e corredato dall’autocoscienza formatasi e maturata nel corso dei secoli. L’identificazione dei napoletani nel re e nell’istituzione monarchica ha cambiato forma ma non sostanza, trasformandosi spesso nel legame e nella fedeltà del popolo napoletano ad una personalità carismatica: ed il populismo è diventato la variabile distorta della nazione napoletana. Infine il livello del politico, in tutte le sue espressioni, ha rappresentato e rappresenta ancora un fattore di assai più forte accelerazione rispetto al peso, alle dinamiche e ai tempi delle forze economiche e sociali del territorio e al loro contributo al rinnovamento.
Procedendo nell’analisi dei percorsi sopramenzionati, la costruzione del "Mito Motore" si poggia sull'identità del Regno di Napoli, a partire dalla figura "impossibile" della fondatrice stessa, la sirena Partenope. Giungendo, in tal modo, alla considerazione della storiografia, Musi ritiene fondamentale menzionare ed annoverare che le “tappe-fulcro” risultano essere state articolate nel periodo storico coincidente con quello dei magni, quali Pontano, Giannone, Illuministi e Cuoco. Essi, nel corso del XIX secolo, hanno coltivato la speranza che, proprio dalla Nazione Napoletana Regnum, potesse originarsi l’Unità d’Italia.
Tale percorso si articola su tre direttrici principali:
1. Fedeltà al cospetto della figura del Monarca: il sovrano costituisce una figura imprenscindibile sia in termini sociali sia politico-culturali, ergo, appartiene alla visione del tempo la considerazione del Monarca in veste di “colui che detiene il potere”. Tale diritto, prettamente spettante al Sovrano, ne costituisce anche il senso di appartenenza per la sfera dei sudditi.
2. Primato progressivo della Capitale: ascesa di natura storico-politica e culturale della Capitale (Napoli) considerata il Regno, costituitosi intorno al concetto del "primato" di Napoli.
3. Accelerazione del Politico: accelerazione relativa al livello decisionale di natura politica in relazione al ruolo e al peso delle forze socio-economiche esistenti. Questa terza direttrice riporta e tratta il concetto di tradizione proposto da Eric Hobsbawm, risultante nella costruzione di una serie di elementi tratti dalla realtà che, dopo aver subito un processo di generalizzazione, ne subiscono un secondo di mistificazione.
La storia passata e recente ci consegna, dunque, una questione su cui Musi riflette ampiamente lungo questo densissimo libro: la continuazione, per altre vie e con altri mezzi, dei tre caratteri storici della nazione napoletana. Napoli, l’ex capitale, continua, insomma, a pesare positivamente e/o negativamente nei processi storici complessivi del Mezzogiorno d'Italia. 

Le perle lucane. 2. Lagonegro

«Partiamo da Lauria dopo avervi passata la notte, ma ancor troppo presto per poterne discernere la posizione; abbiamo fatto ventotto miglia ...