giovedì 7 settembre 2023

La cultura meridionale. 1. Il secondo Settecento tra antichi e moderni

Necessità di semplicità, di esemplarità, di una formazione, per così dire, scientifico-morale, in senso pedagogico: queste furono le cifre della nuova declinazione dell’antico in età napoleonica, che passarono anche attraverso una nuova e più accurata pratica della traduzione dei classici greci e latini. Infatti, quello che potrebbe essere definito “rinascimento napoleonico” si differenziò notevolmente, per metodo e scopi, dall’antiquaria napoletana del tardo xviii secolo, pur presupponendola ampiamente, nell’alveo, anche in campo culturale, di una continuità generazionale.

Il secondo Settecento meridionale, infatti, fu segnato anche dalle scoperte di Pompei, Ercolano, Stabia e Pozzuoli, che inserirono Napoli nell’itinerario del Grand Tour, spronando i viaggiatori ad andare oltre la capitale ed avventurarsi nelle province più interne del Regno di Napoli alla ricerca di prove tangibili della grecità. Se, tuttavia, l’antiquaria risorgeva a nuova vita, restava imprescindibile l’attenzione alle condizioni materiali delle province, sottolineata dalla scuola genovesiana, che aveva iniziato a teorizzare la necessità di una conoscenza delle scienze economiche per giovare allo sviluppo della nazione. Sviluppando l’opposizione tra «erudizione» ed «antiquaria», già presente nell’opera di Pietro Giannone, i riformatori della cerchia di Genovesi puntarono, dunque, sulla necessità di esaminare, più che la storia politica, commercio ed agricoltura, creando, come in Francia, una netta opposizione tra un’erudizione di seconda mano, che appagava la semplice curiosità e scienze utili per scoprire le cause del progresso economico. 

Certo, gli antiquari napoletani erano anche dei politici, nel senso che la loro erudizione non era sempre fine a se stessa, ma collocata al servizio del programma sviluppato dal Giannone, soprattutto dagli anni Trenta del Settecento, per estendere la supremazia del sovrano nelle questioni ecclesiastiche e giudiziarie (regalismo e giurisdizianalismo). Così, le monete, le medaglie e le iscrizioni, come pure i diplomi e la scrupolosa ricerca d’archivio, diventavano strumenti fondamentali per ricostruzioni storiche che intendessero confermare l’autonomia del Regno rispetto alla Chiesa e limitare la proprietà e la giurisdizione dei vescovi, dei monasteri e dei santuari. Tale causa produsse non solo, come noto, opere di giuristi e uomini di lettere come Saverio Mattei, Giovanni Andrea Serrao e Ciro Saverio Minervino, ma anche opere storiche di rilievo come l’Istoria del Regno di Napoli di Alessio De Sariis.

Un trait d’union rilevabile tra quel tipo di antiquaria proteso al riconoscimento delle antiche radici italiche e la nuova scienza dell’antico ripresa soprattutto nel Decennio è riscontrabile proprio in queste comuni matrici di cultura politica. Usare l’antico, più che commentarlo: servirsi degli antichi scrittori per ritrovare nel passato le radici di un progetto di cultura ed azione volto a rinnovare, finalmente, il Mezzogiorno d’Italia ma, come in campo amministrativo, partendo dagli anelli di base, le province del Regno, con il loro tesoro di cultura.

Uso analogico dell’antico, questo, ripreso, come noto, nel corso del 1799, quando la propaganda, infatti, avrebbe di fatto trasformato gli antichi eroi, soprattutto greci, in esempi civici, la cui grandezza derivava dall’essersi messi al servizio di una causa pro patria: così, per fare uno degli esempi più noti, il generale Championnet, che seppe ritirarsi per non prevaricare la causa che serviva, poteva essere accostato al modello classico del Timoleonte di Plutarco, che si ritirò non appena liberata Siracusa dalla tirannide. Le figure eroiche venivano, in tal modo, recuperate nella loro umanità, con le loro debolezze, in modo tale che ogni patriota potesse identificarsi con esse. 

I topoi più usati nella pubblicistica furono proprio quei politici che avevano anteposto la patria ad ogni interesse personale (in ciò contribuendo ad “eroicizzare” gli stessi “patrioti” come, ad esempio, Domenico Cirillo o Francesco Mario Pagano, in tal senso presentati al lungo Ottocento come esempi di eroi dell’agire comunitario e, come tali, consacrati nella pubblicistica risorgimentale, specie di matrice napoletana), come, appunto Timoleonte e il romano Bruto, in una sorta di simmetria tra mondo classico latino e mondo classico greco. Marco Giunio Bruto, consacrato in Italia dal Bruto secondo di Vittorio Alfieri, pubblicato nel 1789 e, ancor prima, da La mort de César di Voltaire, pur essendo universalmente noto come uno degli organizzatori della congiura contro Cesare, “reo” di non rinunciare al proprio potere assoluto a favore della libertà repubblicana, era diventato esempio illustre di patriottismo. Si usava l’appellativo di “secondo” per distinguerlo da Lucio Giunio Bruto, il quale sollevò il popolo contro Tarquinio il Superbo e assistette all’esecuzione dei suoi due figli, colpevoli di tramare contro Roma a beneficio dei Tarquini: a Bruto “primo” Alfieri aveva dedicato un’altra tragedia, intitolata appunto Bruto primo, scritta nel 1784. Nella pubblicistica Bruto “secondo” era il simbolo dell’eroe di stampo massonico, che per servire la causa repubblicana non aveva esitato a sacrificare l’affetto più caro, in dichiarata simmetria con Timoleonte, che aveva assassinato il fratello tiranno di Corinto. Tra l’altro, oltre all’esempio alfieriano, sugli scrittori repubblicani agiva forte anche il ricordo delle tragedie francesi, come detto nel caso di Bruto, anche se il sacrificio dell’affetto paterno, molto più dichiaratamente politico in Alfieri, in Voltaire era presentato in modo anche più ambiguo. Per Timoleonte, il successo dell’exemplum in chiave politica fu sicuramente dovuto al fatto che il motivo del fratricidio era un esempio fortemente politicizzabile di conflitto tra i legami familiari e la tensione verso la libertà, decisamente espresso, oltre che dall’Alfieri, da Marie Joseph Chénier in una tragedia la cui rappresentazione fu proibita da Robespierre poiché si esaltava il ritiro dell’eroe dalla politica dopo la liberazione della patria. Un esempio è nel periodico napoletano del 1799 «Corriere di Napoli e Sicilia», in cui un posto di primo piano era affidato ad una figura così gloriosa del libertarismo siciliano, che, tuttavia, a differenza di tanta altra pubblicistica del periodo, qui compariva, piuttosto che in relazione all’eliminazione di suo fratello Timofane, aspirante tiranno a Corinto, come tirannicida e liberatore di Siracusa dalla tirannide di Dionigi II. Questo perché in Plutarco, specie nei primi capitoli della biografia timoleontea, l’editorialista trovava i temi più consoni alla sua propaganda del progetto di liberazione della Sicilia dalla tirannide borbonica: la desolazione e l’imbarbarimento dell’isola sotto i tiranni e il baluardo di libertà rappresentato dagli “stranieri” accorsi in aiuto dei siciliani. Le parole di Plutarco ben si accordavano a descrivere lo stato dei siciliani sotto Ferdinando, aiutato dagli inglesi:


per il resto della Sicilia, una parte di essa era rovinata e già completamente priva di abitanti a causa delle guerre, e la maggior parte delle città erano occupate da barbari di razze miste e soldati disoccupati, che acconsentivano prontamente ai successivi cambiamenti nel potere dispotico. […] conseguenza, quelli dei Siracusani che rimasero nella città erano schiavi di un tiranno che in ogni momento era irragionevole, e il cui spirito in quel momento era reso completamente selvaggio dalle disgrazie.


Non casualmente, Ferdinando IV, in più punti del periodico, viene apostrofato come «novello Dionisio», quindi con una forte spinta analogica verso l’immagine di un tiranno selvaggio e disperato, aiutato da uno straniero che voleva impadronirsi delle sue ricchezze: sicché si spiega anche l’analogia tra Inglesi e Cartaginesi presente nel giornale. Entrambi, dunque, immagini di slealtà e di collaboratori del tiranno contro l’eroe liberatore.

Come visto, dunque, uno degli autori cardine di questa trasformazione nell’uso dell’antico fu Plutarco e, del resto, la biografia plutarchea, anche in Italia, era stata una delle forme principalmente adottate nella stesura di molte storie locali, sfruttata e conosciuta già negli storici ‘definitivi’, come del resto già aveva evidenziato Croce, notando come una sorta di genere misto tra storia e biografia attraversasse trasversalmente le opere di storia ‘nazionale’.

Delle forme biografiche note alla cultura rinascimentale, quella più nota e seguita fu, tuttavia, la biografia classificatoria del tipo de viris illustribus, mutuata da Svetonio e Girolamo e già ampiamente utilizzata, in direzione elogiativa, dal Platina e dal Panvinio. Tale tipologia, che andava a continuare, sovrapponendovisi, le forme cronachistiche ancora in uso in pieno xvi secolo, permetteva allo storico di integrare le informazioni cronologico-topografiche con l’esemplarità ed il gusto dell’aneddoto morale, ed al tempo stesso volto, tramite i memorabilia, a definire taluni aspetti delle virtù ‘civiche’ della comunità. In tal modo, l’imitazione del dettato della storiografia tradizionale, di tipo cronologico-istituzionale, si ampliava, spesso, all’inserimento, nella delineazione del bios cittadino, di letterati, artisti ed eruditi come esempi cittadini. 

D’altro canto, utilizzare la forma biografica come struttura narrativa dispensava gli autori dal dover esprimere chiaramente una propria opinione politica, presentando la storia cittadina come una serie di quadri staccati: probabilmente sui seguaci della biografia agì fortemente anche il modello delle notissime biografie papali del poligrafo ed erudito agostiniano Onofrio Panvinio. In effetti, la necessità imposta dalla forma biografica di partire dalla nascita di un personaggio illustre dispensava dal dover chiaramente esprimere una tesi sul progressivo cambiamento della natura del rapporto tra città e potere centrale che verificava ai propri tempi.

La biografia di singoli fu poi adottata, come genere prettamente rinascimentale, non collegata ad altre biografie ‘categoriali’, soprattutto grazie alla riscoperta di modelli antichi come Nepote e Plutarco. Il primo, con la sua divisione degli uomini illustri in categorie, poteva essere ancora un legame con l’ormai classico schema dei viri illustres ma, non offrendo alcuna esplicita comparazione tra i personaggi, divenne una sorta di modello espositivo della nuova fioritura biografica, offrendo lo schema di una narrazione strutturata per mitologemi molto più articolati di quelli classificatori di origine svetoniana.

Prova della diffusione dell’opera di Plutarco è la fioritura di edizioni italiane tra XVI e XVIII secolo.

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