giovedì 19 marzo 2020

La Basilicata moderna. 34. Il periodo ferdinandeo (1750-1790)

Dei 128 luoghi abitati della Basilicata borbonica, soltanto 16 non erano più soggetti a giurisdizione feudale , che ancora a fine Settecento interessava l’86% della popolazione. Si trattava, dunque, di una realtà provinciale ancora molto lontana da quanto poteva riscontrarsi in altre province il cui frammentato sistema urbano, unito alla presenza di circa cinquanta famiglie nobili – tra le più potenti del regno – impedivano un esercizio del potere diverso dall’intricato intreccio di privilegi di cui la nobiltà godeva. 
In una società ancora connotata da un’ economia a scarsa circolarità e possibilità di sbocchi, in larga parte di pura sussistenza , emergevano comunque non poche eccezioni che davano un impulso decisivo all’economia locale; accanto all’esercizio di giurisdizioni feudali, ormai quasi del tutto d’ordine laico, quindi, rilevanti presenze di nobiltà provinciale, svolgevano peculiari attività redditizie: i Carelli di Picerno erano proprietari di numerosi immobili, oltre che impegnati nella trasformazione dei loro introiti in una fitta rete di prestiti ; il barone Tommaso Brancalassi di Episcopia forniva di legname (tagliato dai suoi boschi) l’apparato militare napoletano per la costruzione delle navi della flotta regia; Tommaso Mazzaccara, duca di Ripacandida, era proprietario di numerosi beni urbani e rurali, oltre che titolare, nell’area, di vari prelievi fiscali. Fra i deboli nuclei di borghesia terriera e delle professioni, singoli proprietari, erano impegnati nella gestione di consistenti estensioni terriere, di case, greggi, attività di affitti, appalti, arredamenti, nonché talora “nell’uso spregiudicato delle stesse leve dell’amministrazione pubblica ”. Tra i più noti fittavoli vi erano G. F. Miadonna (socio degli Addone di Potenza), i Santoro, i Corbo (fittuari dei Doria). I Lizzadri e i Picardi erano proprietari di case e palazzi. Ma ancora, i Balsamo di Tolve incassavano 926 ducati l’anno per l’affitto di alcune difese comunali; i Barresi-Luparuoli di Marsiconuovo vendevano, ogni anno, alla fiera di Viggiano, circa 60 rotoli di lana; a quella di Padula centinaia di capre, capretti, agnelli, «zimmeri», ricavando, inoltre, cospicui profitti dall’affitto di ampie estensioni di proprietà ecclesiastiche e numerose case. A Senise, Nicolò Fortunato teneva impegnati in commercio di grani 385 ducati, mentre il commerciante F. Cappellano 200 sopra «la potega» . 
Di natura quasi esclusivamente familiare e in genere destinate a soddisfare bisogni di prevalente ambito locale erano le attività secondarie come la lavorazione della lana, della canapa, del cotone e la concia delle pelli, soprattutto a Montemurro e Lauria; ma anche lavori in ferro, specie ad Avigliano, Ruoti, Lagonegro, Spinoso, Sarconi; nonché lavori in terraglia, tintorie, cappelli, tappezzerie, stoffe, specie a Ferrandina. 
Tutt’altro che omogenea dunque, si presentava la società lucana, costituita da una parte, da braccianti, contadini poveri, pastori, artigiani, esili nuclei di massari di piccola e media borghesia professionale, comunque legata alla terra; dall’altra da piccoli, ma potenti gruppi di nobili benestanti, molti dei quali per gran parte dell’anno risiedevano nella capitale del regno, in case di loro proprietà, in genere utilizzate anche per consentire ai propri figli di continuare gli studi. 
A fare da sfondo ad un panorama sociale di tale irregolarità vi era una presenza cospicua del ceto ecclesiastico, che anziché dedicarsi alla cura delle anime, al soccorso dei poveri, all’ausilio degli svantaggiati, si organizzava in un’intricata rete di rapporti economici con l’appellativo di “chiese ricettizie”. Tale quadro di istituzione ecclesiastica, per le modalità di gestione del suo patrimonio, non si differenziava da un’azienda; non solo, «dava indipendenza al clero paesano, lo rendeva esperto più in faccende relative a censi e decime che in questioni di culto divino», ma gli conferiva anche «un senso di immunità nella vita morale e civile» . Il relativo clero, sinonimo nel Mezzogiorno e in Basilicata di «clero litigioso e attaccabrighe, di clero geloso della propria “roba”, poco incline all’obbedienza ve
rso il vescovo e che calcolava gli stessi obblighi religiosi come una rendita» , aveva come «obiettivo prevalente la crescita e la possibile fruizione di beni e rendite della massa comune e con essa dell’entità della propria quota capitolare annuale, peraltro con l’intento di poterla perpetuare per i propri familiari» .
In una società connotata da tale rigidità di sistema, dunque, non c’era posto nella gestione del potere locale, se non per le stesse e poche famiglie che nelle peculiari articolazioni, laiche ed ecclesiastiche, nelle Università e nei capitoli “clerali ricettizi”, continuavano ad occupare posizioni di prestigio ostacolando la circolarità delle cariche e quindi la possibilità di ascesa di quanti rimanevano fuori dal gruppo delle famiglie titolari di un diritto elettivo o estranei alla volontà dei Parlamenti . 
Ma se di immobilismo si poteva connotare la gestione del potere, da parte di chi subiva i soprusi, vi era tutt’altro che un sentimento d’accettazione: non solo le insurrezioni incominciavano ad organizzarsi in irrefrenabili manifestazioni di popolo ma si condivideva la consapevolezza della necessità di un intervento di più ampia portata, in grado di destabilizzare in maniera irreversibile, l’intero sistema. Così, l’associazionismo politico, con la sensibilizzazione da parte degli ambienti più illuminati del regno si tradusse presto in cospirazione dove, a fare da protagonisti, vi erano i nuovi ideali di libertà e giustizia, il cui successo veniva filtrato attraverso i racconti delle operazioni d’Oltralpe. La Basilicata, infatti, non era rimasta fuori dal grande dibattito avviato dalla cultura illuminista napoletana e anche nei piccoli nuclei massonico-giacobini lucani si cominciava a discutere della necessaria modernizzazione delle strutture politico-istituzionali del Regno e soprattutto dell’eversione della feudalità. Il progetto della cultura politica riformatrice portato avanti si poteva così riassumere: «la terra a chi la sapesse far prosperare, il potere a chi ne sapesse saggiamente amministrare gli interessi; un’amministrazione moderna» ed efficiente che garantisse al Regno una posizione più dignitosa nel quadro delle grandi potenze . 
Mentre a Napoli i primi nuclei massonico-giacobini erano riscontrabili nell’Accademia di chimica di Annibale Giordano e Carlo Lauberg, nell’eloquenza dell’abate Antonio Jerocades – il quale, reduce da Marsiglia, teneva «discorsi continui dei progressi dei Francesi, di rivoluzione e degli abusi del governo di Napoli»  – in Basilicata, sorgeva di converso, la Loggia dei Liberi Muratori di Avigliano, che accoglieva gli esponenti più attivi e progressisti (Girolamo Gagliardi, Girolamo e Michelangelo Vaccaro, Carlo e Giulio Corbo, Vincenzo Masi, Andrea Verrastro, i Palomba) e dove si ritrovavano anche esponenti di più piccole logge massoniche lucane come il sacerdote Francesco Antonio Pomarici di Anzi, Vincenzo Verga e Vincenzo Sarli di Abriola (affiliato alla massoneria del cognato Nicola Sassano della Loggia dei Liberi Muratori di Trivigno), Deodato Siniscalchi di Lavello . 

giovedì 5 marzo 2020

Materiali didattici. 52. La storiografia sul 1799 napoletano

La più recente storiografia ha letto le vicende della Repubblica del 1799 come parte di un comune “spazio politico”, che si era venuto a creare in Italia dal 1796, con l’arrivo delle truppe di Napoleone Bonaparte : in questo senso, la Repubblica napoletana non avrebbe costituito un elemento di eccezionalità rispetto alle altre Repubbliche giacobine in Italia, ma, nonostante le peculiarità e le tradizioni del territorio, rientrò in quella grande stagione di libertà che coincise con la campagna d’Italia di Napoleone, in linea con le varie esperienze delle altre “repubbliche sorelle”: basti pensare al fatto che la costituzione redatta da Mario Pagano era molto simile alla costituzione francese dell’anno III, approvata dalla Convenzione il 22 agosto 1795 e ripresa già a Milano, a Genova e, con molte restrizioni, a Roma . In effetti, nemmeno il tentativo di trovare una relativa autonomia rispetto alla Francia o le resistenze popolari al processo di democratizzazione rappresenterebbero dei tratti esclusivi della Repubblica napoletana, perché questi aspetti erano presenti da tempo ai patrioti di tutta la penisola . 
La prima ricostruzione, coeva agli avvenimenti, fu dei cronisti di parte regia, innanzitutto del domenicano Antonino Cimbalo, testimone delle vicende e autore di un Itinerario della spedizione, dato alle stampe nel 1799, che offrì l'eco immediata dei fatti, con un impianto forzatamente cronachistico, limitandosi alla «narrazione sincera di quanti sono stati gli effetti ammirabili nelle gloriose vittorie riportate da quei soldati, che sotto del Reale Crocesegnato vessillo han combattuto». 
Più meditata fu invece l'opera del siciliano Domenico Leopoldo Petromasi, che aveva seguito il cardinale Ruffo dall'inizio della sua impresa ricoprendo la carica di commissario di guerra per le attività logistiche e ottenendo dal re, al termine del conflitto, il grado di tenente colonnello come riconoscimento per l'opera svolta. 
Il carattere di radicale novità del conflitto fu colto, sul versante rivoluzionario, da Vincenzo Cuoco, che nel 1801, esule a Milano, pubblicò il Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799, nel quale individuava le ragioni del fallimento della Repubblica napoletana nella frattura operata dai giacobini nei confronti della storia e delle tradizioni del Regno e, nel campo “legittimista”, dall'abate Domenico Sacchinelli, estensore delle Memorie storiche sulla vita del Cardinale Fabrizio Ruffo, ma soprattutto da Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, che nel 1834 raccolse le sue considerazioni nella Epistola ovvero riflessioni critiche sulla moderna storia del reame di Napoli del generale Pietro Colletta
Vincenzo Cuoco aveva partecipato all’esperienza rivoluzionaria napoletana, anche se non senza riserve: nel suo Saggio storico ricostruì le fasi della rivoluzione fino alla caduta della Repubblica, sottoponendole al vaglio di una critica lucida e severa, non priva tuttavia di accenti di commossa partecipazione al sacrificio dei “patrioti” napoletani: Cuoco analizzò le cause del fallimento di quell'esperienza trovandole principalmente nell'intrinseca debolezza di una rivoluzione che egli definì “passiva”, indotta dall'esterno ma non sostenuta da un forte coinvolgimento popolare, ricca di tensioni ideali ma innestata in una realtà politico-sociale inadatta a gestire le istanze libertarie e democratiche, con un giudizio che sarebbe divenuto punto di riferimento obbligato per tutta la storiografia successiva sull’intero Triennio giacobino. Diversi erano i motivi per i quali giudicare “passiva” la rivoluzione a Napoli: in primo luogo la popolazione del Regno non l’avrebbe mai fatta da sé, ma perché “importata” dall’esercito francese occupante, sotto forma di rivendicazioni buone ma estranee ai reali bisogni della popolazione meridionale . 
La posizione di Cuoco può essere considerata distinta e contrapposta a quella di Francesco Lomonaco, che partecipò nel 1799 alla rivoluzione e, in seguito, andò esule in Francia: da questa esperienza nacque il suo Rapporto al cittadino Carnot sulle segrete ragioni e su’ principali avvenimenti della catastrofe napoletana (1800), nel quale Lomonaco credeva che la causa del crollo della Repubblica napoletana si potesse imputare esclusivamente alla politica del Direttorio .
Vincenzo Cuoco e Pietro Colletta, testimoni diretti degli avvenimenti del 1799, fin dall'inizio diedero al dibattito storico un taglio particolare, di ricerca e di meditazione sugli errori commessi dai repubblicani, per dimostrare che la fine della Repubblica napoletana era stata la conseguenza di una rivoluzione accettata «passivamente»: Cuoco, soprattutto, si sforzò di presentare quel fallimento come la conseguenza di sbagli e di circostanze avverse, così da salvaguardare il ruolo dirigente dell'intellettuale e il suo diritto a ergersi come rappresentante della nazione.
La polemica storiografica fra i due opposti schieramenti venne alterata, però, dall'autocensura borbonica, che pose le radici della sconfitta culturale dei “sostenitori del Trono e dell'Altare”: infatti, Ferdinando IV, nel 1801, dopo l'amnistia imposta dai francesi con il trattato di Firenze, proibì la pubblicazione di opere sul periodo repubblicano e sulla spedizione della Santa Fede, cioè su una vicenda che, per quanto vittoriosa, egli considerava legata agli eccessi di una guerra fratricida e il cui ricordo, a suo avviso, non avrebbe fatto altro che rinfocolare rancori nefasti.
Rilevante fu, a cavallo tra Otto e Novecento, la posizione di Benedetto Croce, che considerava il periodo della Repubblica napoletana, seppur molto breve, fondamentale per la nascita di una nuova identità italiana , insistendo soprattutto sul primato dell'elemento attivo, della minoranza pensante, di fronte alla “massa inerte”, pesante e riluttante, e inoltre riconoscendo che, dietro al movimento sanfedista, si nascondeva un sentimento di devozione alla monarchia e di amore e indipendenza nei confronti degli stranieri e delle leggi che cercavano di “imporre” . Croce, del resto - com’è noto -, riconduceva in larga misura la storia del Mezzogiorno d'Italia a quella del suo ceto intellettuale, giungendo a idealizzare i giacobini come una nuova aristocrazia, «quella reale, dell'intelletto e dell'animo» . 
Antonio Gramsci, utilizzando lo stesso procedimento logico, si rammaricava dell'assenza “momentanea” di un'avanguardia intellettuale, proponendo una interpretazione delle insorgenze in chiave di lotta di classe fra contadini e borghesia. Secondo l'ideologo marxista «la città fu schiacciata dalla campagna, organizzata nelle orde del cardinale Ruffo perché la Repubblica [...] trascurò completamente la campagna da una parte, ma dall'altra, prospettando la possibilità di un rivolgimento giacobino per il quale la proprietà terriera, che spendeva la rendita agraria a Napoli, poteva essere spossessata, privando la grande massa popolare dei suoi cespiti di entrata e di vita, lasciò freddi se non avversi i popolani napoletani» . 
Giorgio Candeloro respinse la «tesi della rivoluzione passiva, intesa nel senso puramente negativo della refrattarietà dell'Italia alla Rivoluzione o della non necessità della Rivoluzione in Italia per effetto della precedente opera del riformismo settecentesco» e la recuperò in chiave gramsciana, sostenendo che il giacobinismo italiano non aveva avuto la possibilità di realizzare « quell'alleanza tra città e campagna che era riuscito ad attuare in Francia nel periodo precedente il Termidoro» e che comunque il periodo rivoluzionario ebbe effetti positivi, consentendo «un ulteriore passo avanti della borghesia italiana nel suo complesso [...] la formazione di un movimento patriottico, che tende a spezzare rivoluzionariamente il vecchio ordinamento politico dell'Italia» . 
Nel complesso, queste ipotesi interpretative finirono per ricondurre la storia delle azioni umane quasi esclusivamente all'acume o agli errori dei gruppi dirigenti, ignorando o togliendo valore alla partecipazione popolare e offrendo spiegazioni insufficienti delle insorgenze. In particolare, l'impostazione “classista” cercava invano di accreditare l'idea di una conflittualità sociale molto diffusa in tutta la penisola, che avrebbe sempre avuto gli stessi caratteri in presenza di popolazioni rette da istituzioni diverse, situate in contesti geoeconomici non uniformi e con tradizioni differenti. 
Una spiegazione insoddisfacente fu offerta anche dalla storiografia nazionalistica, fra le due guerre, che vide nelle insorgenze soltanto preziose affermazioni di valori nazionali e, quindi, una reazione allo straniero invasore e non ai principi rivoluzionari, che avrebbero ricevuto migliore accoglienza se presentati in altro modo e in altra circostanza. 
Negli ultimi trent'anni il peso della tradizione crociana, nella versione “rinnovata” dagli innesti gramsciani, ha continuato a stimolare l'attenzione degli storici sugli intellettuali e sul pensiero politico della Repubblica napoletana, ritenuta «un momento fondamentale non solo nella storia meridionale ma nella elaborazione della tradizione democratica italiana» . Anche per altre vie il giacobinismo napoletano ha suscitato interesse: «Gli espliciti o inconfessati sensi di inferiorità del meridionalismo storico potevano attingere alla "Repubblica dei martiri" consolazione e riscatto, speranze per l'avvenire. [...] Aneddotica delle "donne illustri", contadinismo populista e "perdute armonie" cittadine fra aristocrazia e "plebe", facevano e fanno del 1799 una inesauribile fonte di ispirazione letteraria» . 
La recente riflessione storiografica ha analizzato in chiave comparata anche il fenomeno delle insorgenze, lette nel contesto dei mutamenti economici e sociali in atto in varie parti del Regno, dei violenti conflitti municipali provocati dal mutare delle gerarchie tradizionali e dello scontro culturale fra due realtà molto differenti. 
Peraltro, il bicentenario della Repubblica napoletana del 1799 ha fatto registrare un notevole sviluppo di attenzione e di interesse per la letteratura politico-istituzionale relativa all’età rivoluzionaria e napoleonica, a livello centrale e periferico. Al riguardo, un vasto ventaglio di percorsi di studio e di ricerca ha consentito una rinnovata lettura dell’esperienza repubblicana, contestualizzata nel più generale ambito delle Repubbliche giacobine e, in particolare, del 1799 in Italia, sia sul versante rivoluzionario, sia su quello controrivoluzionario. In relazione alla Repubblica napoletana, tra i risultati più significativi è stato certamente il ridisegnato quadro di lettura degli avvenimenti del 1799 in provincia, nell’articolazione politico-istituzionale delle loro espressioni, talora anche con varie analisi comparative dei modi e delle forme assunti, nelle varie province, dalla veicolazione della nuova cultura politica e dal complesso conflitto politico-sociale che caratterizzò le intrecciate fasi della repubblicanizzazione e della derepubblicanizzazione. In questo variegato contesto, emerge chiaramente, comunque, un filo conduttore: la Repubblica del 1799, nonostante la sua breve e convulsa vicenda, non fu solo un episodio astratto, scollato da quello che oggi si definirebbe “Paese reale”, ma un momento fondamentale nell’elaborazione della tradizione democratica e liberale italiana, che avrebbe consegnato, grazie alla memoria degli esuli napoletani, all’Ottocento un nuovo linguaggio politico-comunicativo, un nuovo modo di intendere la “rivoluzione”, non più come astratta progettazione, ma come adattamento fattivo e pratico dell’istanza rivoluzionaria al contesto territoriale.

L'Antica Lucania. 18. Alla riscoperta del sarcofago di Rapolla (Antonio Cecere)

È la storia straordinaria che il Vulture ha da raccontarci sin dai tempi più remoti. Una tappa obbligata nelle significative pagine della storia umana è quella che facciamo oggi a Rapolla, alla riscoperta di un antico sarcofago. 
Fino a non molto tempo fa, lo studio dei sarcofagi riguardava solamente quelli ritrovati in area urbana, con qualche sporadico accenno a rinvenimenti e produzioni da altre regioni italiane. Solo a partire dagli anni '80, si inizia a prendere in considerazione la documentazione, scarsa e sporadica, dei rinvenimenti di sarcofagi da una molteplicità di ambiti regionali relativamente alla documentazione degli insediamenti e delle forme collegate di proprietà. 
All’interno di questa nuova ondata di ricerche fondamentale è lo studio di Ghiandoni sul (cosiddetto) sarcofago di Melfi, un vero e proprio “caso da manuale” rinvenuto, in realtà, nella contrada Albero in Piano in agro di Rapolla (PZ), precisamente nei pressi della fiumara del Rendina, nel maggio del 1856 e conservato attualmente nel Museo Nazionale del Melfese all’interno del castello normanno-svevo della città federiciana. 
C’è da dire, tuttavia, che il sarcofago appena rinvenuto, prima di “approdare” all’attuale ubicazione, venne esposto a Melfi, in quanto sede di Sottoprefettura, per lunghi anni in piazza Municipio senza alcuna precauzione, alla mercé degli agenti atmosferici. In seguito per un altro periodo venne tenuto in uno scantinato del Palazzo Vescovile tanto che tale “aberrazione” viene citata in  un importante volume sulla scultura romana: D.E.E. KLEINER, Roman Sculpture, New Haven 1992, p. 306. 
Scavi effettuati da una missione inglese del 1971, nella stessa zona di Rapolla, hanno portato alla luce alcuni ambienti di servizio di una villa, un piccolo edificio termale con un mosaico in bianco e nero con raffigurazioni zoomorfe nel frigidarium databile al II d.C. Si è proposto, così, di attribuire il sarcofago ai proprietari della villa ritrovata. 
Il sarcofago era ubicato all'interno di un mausoleo, una camera funeraria a pianta quadrangolare di ca. m. 8 x 8 con un basamento di laterizio sul muro di fondo, dell'altezza di ca. m. 1, 30 su cui era posto il manufatto, che faceva parte della villa nel territorio a sud-ovest di Venosa. Il sarcofago era riverso su di un lato e protetto negli altri da muratura in laterizi. Internamente presentava ancora un teschio con tutti i denti, un femore ed alcuni resti ossei. 
Non abbiamo nessuna informazione sul complesso abitativo di Albero in Piano, tuttavia la villa della II fase (150-250 d.C.) scavata a Masseria Ciccotti ad Oppido Lucano può probabilmente fornirci un'idea, seppur soltanto indicativa, dell’imponenza del suo impianto architettonico. 
Si tratta di uno dei più antichi sarcofagi di tipo asiatico a noi noti, datato intorno al 170 d.C. e prodotto in una bottega dell'Asia Minore (il marmo proviene dalle cave di Docimion, in Frigia); è da sottolineare che esso costituisce uno dei tre esemplari rivenuti nel Mezzogiorno d’Italia, importati dall'Asia Minore, senza l’intermediazione della capitale. Sembra cosa da nulla ma si deve tener presente che il totale dei sarcofagi asiatici importati in Italia tra II e III secolo d.C. ammonta a non più di 25-30 esemplari. 
L'acconciatura “all'ultima moda” della donna scolpita nella parte superiore, secondo i canoni della ritrattistica imperiale, si rifà alla capigliatura pettinata secondo il modello di Agrippina Minore, madre di Nerone. Non va sottaciuto, altresì, che probabilmente in questo caso specifico, però, il ritratto sia stato desunto dai modelli iconografici di Faustina Minore, moglie di Marco Aurelio e le sembianze della defunta rappresentata distesa sul letto funebre, come da coperchio del sarcofago, siano state rifinite, su specifiche indicazioni del committente, in un momento successivo. 
Per quanto concerne la Lucania, il caso analizzato del sarcofago di Melfi, in mancanza di un’iscrizione dedicatoria, è stato considerato solo ed eccezionalmente in relazione alla committenza, quale manifestazione di rilevante livello di arte colta con una predilezione per le rappresentazioni mitologiche. Ghiandoni vi ha giustamente identificato, nelle figure rappresentate in nicchie architettoniche sui quattro lati del sarcofago, una sequenza di dei ed eroi con probabili allusioni alla guerra di Troia  e soprattutto sul lato anteriore la raffigurazione della divinità femminile armata che scrive la vittoria sullo scudo, simbolo privilegiato della propaganda imperiale, è, tra l'altro, rivitalizzata nella propaganda di età antonina. 
In via generale le caratteristiche del sarcofago lo connettono ad un personaggio dell'aristocrazia senatoria, per di più appartenente ad una famiglia che aveva contatti privilegiati con la casa imperiale e per il quale non sarebbe senza fondamento ipotizzare rapporti con l'ambiente dell'Asia Minore che giustificherebbe la scelta accordata a un tale sarcofago. A tal riguardo non si esclude la possibilità che potesse trattarsi di un personaggio appartenente alla nota famiglia lucana dei Brutii Praesentes. Come osserva Cervellino, il Dadi e lo Smith identificarono nella giovane scolpita sul coperchio di detto sarcofago, un’appartenente addirittura alla Gens Cornelia, una figlia di Cecilia Metella, consorte di Lucio Cornelio Silla, famiglia trasferita a Venosa all’epoca della colonizzazione romana. 



Le perle lucane. 4. Maratea

 «Dal Porto di Sapri, che aperto è fama inghiottisse la celebre Velia, raccordata dal Poeta dopo Palinuro, nel golfo di Policastro, à dodeci...