FONTE: B. CROCE, Storia del regno di Napoli, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1992, pp. 124-125.
Un blog sulle "microstorie" della Basilicata e sulla Storia che ad esse si intreccia.
FONTE: B. CROCE, Storia del regno di Napoli, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1992, pp. 124-125.
Nel cuore della Lucania a sessantatre chilometri dalla città di Potenza, capoluogo di provincia, a ridosso d’una amena collina, frastagliata di vigne e di ulivi, è situata Corleto Perticara con la popolazione di cinquemila abitanti, a settecenticinquanta metri sul livello del mare.
Giacomo Racioppi nelle sua «Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata» cosi scrive: «Corleto, il suffisso ne determina il significato evidente di luogo impiantato a noccioli, selve bucoliche gradite agli antichi poeti ed alle ninfe». Come alla Giuturna di Ovidio: «IIla modo in silvis inter Còryleta latebat».
L’ubicazione delle sue abitazioni verso sud-est è quanto mai salubre ed aperta, perchè degradante in lieve pendio ed intersecata da larghe strade ed ampie piazze, fra cui è celebre quella del Plebiscito che ricorda la scintilla dell’insurrezione lucana del 16 agosto 1860 contro il Borbone. Non vi sono notizie precise che riflettano ai posteri le origini di questo paese lucano, importantissimo come nodo stradale e per le attività industriose dei suoi abitanti, indefessi e rudi lavoratori della terra. Il 10, 11 e 12 settembre del 1943, durante l’ultima disastrosa guerra, Corleto Perticara, per la sua rilevante posizione strategica, ebbe a subire reiterati bombardamenti da apparecchi statunitensi che la raserò al suolo, distruggendo, fra l’altro, non pochi ruderi dell’antichità. (...)
Fu soltanto in seguito che Corleto si estese nella parte superiore, allargandosi di più verso mezzogiorno sul dolce declivo della collina di monte Calvario, ove culminano tre croci, meta di tutti i fedeli. Attualmente le case dell’antica Corleto, sottoposte al castello, sono tutte diroccate, mentre sono rimaste in buono stato quelle poche in rione Costa, a valle della chiesa madre, ove, riattata, ancora si conserva l’antichissima Cappella di Santa Domenica (la Sagra del villaggio), fabbricata già in mezzo al bosco, che più non esiste e tanto si rimpiange. Pertanto ben poco abbiamo potuto assodare dalle rovine esistenti nella zona più antica del paese, tanto più che i materiali ond’erano fabbricate le case, sono scomparsi oppure sono stati impiegati dalle generazioni che si sono succedute. Il paese era tutto attorno al vecchio castello feudale e le sue case erano poste in modo da coprirlo e difenderlo da eventuali incursioni ostili.
FONTE: E. IERARDI, Corleto Perticara (Lucania). Nuova monografia storica, Tipolitografia "Centro Grafico Sud, 1984, pp. 7-10.
Le ricerche archeologiche in Val d’Agri hanno avuto inizio nel 2000, con l’avvio dei lavori Eni relativi alla Rete di Raccolta e all’Oleodotto Viggiano-Taranto. I territori interessati, per l’alta valle dell’Agri, sono quelli di Grumento Nova, Marsiconuovo, Marsicovetere, Montemurro, Paterno, Tramutola e Viggiano. La villa di Barricelle venne individuata nel settembre 2006. La direzione scientifica dello scavo è di Alfonsina Russo, con la collaborazione di Maria Pina Gargano, che conduce le indagini sul campo, mentre lo studio delle iscrizioni su instrumentum e della ceramica è a cura di Helga Di Giuseppe.
Una villa ritrovata si trovava in località Barricelle, in un’area prospiciente la valle, dominata a nord dal monte Volturino e lambita ad est dal torrente Molinara, affluente dell’Agri. Il complesso edilizio venne abitato durante il lungo periodo compreso tra la fine del II secolo a.C. e il VII d.C.
La vita della villa, dunque, si snodò in molte fasi. Durante la prima, l’edificio s’impronta su un’area già frequentata (come visto), nel periodo lucano tra la fine del IV ed il corso del III secolo a.C., come dimostra la ceramica a vernice nera residua rinvenuta nei livelli rimaneggiati su cui s’impianta la struttura monumentale. Gli strati di abbandono della prima fase della villa, databili tra la fine del II ed il terzo quarto del I secolo a.C., forniscono gli elementi necessari per capire che inizialmente si trattasse di un complesso edilizio costituito da un unico ambiente a pianta rettangolare di notevole estensione collegato nella parte sud con il settore produttivo, laddove s’individuano un ampio piano di cottura e numerosi frammenti di dolia (recipienti di argilla), nonchè un vasetto miniaturistico a crema che rimanda a culti domestici.
Nella II fase, il complesso edilizio di Barricelle è una villa rustica a doppia vocazione, cioè residenziale e produttiva. Il nuovo edificio, realizzato in età augustea, continuò ad essere occupato ininterrottamente fin oltre la metà del I secolo d.C., quando la vita di questo edificio di seconda fase si interruppe a causa di eventi sismici.
Dopo un breve periodo di abbandono, la villa nel corso del II secolo venne ricostruita, conoscendo il periodo di maggior splendore, in quanto visse una vera e propria monumentalizzazione ed una riorganizzazione degli spazi, che interessava in particolare la zona settentrionale. I bolli sulle tegole riportavano il nome di Gaius Bruttius Praesens, sicché la villa apparteneva alla famiglia lucana dei Bruttii Praesentes, nota per aver dato i natali oltre che a consoli e senatori, anche a Bruttia Crispina, detta «imperatrice lucana» perché andata in sposa, nel 178 d.C., all’imperatore Commodo, che, poi, l’avrebbe fatta esiliare ed uccidere a Capri per adulterio nel 187 d.C.
Questa terza fase della villa fu distrutta da un terremoto tra la fine del II e gli inizi del III secolo. Tuttavia la felice posizione geografica della villa fece sì che la villa venisse subito ricostruita nel III, pur subendo profondi rimaneggiamenti, soprattutto nella pars urbana, che, infatti, si trasformò da quartiere residenziale in quartiere artigianale.
Fra la seconda metà del IV e la fine del V secolo, la villa di Barricelle vide la sua ultima frequentazione, prima di essere abbandonata, presumibilmente e soprattutto a causa di dissesti di natura idrogeologica, dato che il torrente la Molinara, oggi distante 140 metri dall’impianto, era anticamente più vicino.
L'interesse e la partecipazione del pubblico hanno reso l'evento ancora più stimolante, confermando l'importanza di queste riflessioni, che vi offriamo nel video che segue.
A Napoli, già il 9 febbraio 1799 circolò l’annuncio di un nuovo periodico, il «Corriere d’Europa», con cui Angelo Coda, riproponendo una testata già nota, riprese la sua attività editoriale. Una prima versione del «Corriere d’Europa» fu pubblicata da Coda in collaborazione con Giovanni De Silva già a partire dal 28 agosto del 1798, per offrire al pubblico notizie di affari e di commercio.
Inizialmente il «Corriere» era conosciuto solo per una notizia riportata dal «Monitore»: più tardi, Giovanni Beltrani entrò in possesso occasionalmente dell’intera raccolta, acquistandola presso il libraio Casella di Napoli. Beltrani, nel 1921, segnalò l’opera pubblicando un Manifesto di annuncio con un indice cronologico. L’intera collezione entrò nuovamente nel circuito commerciale nel 1939 e fu acquistata, presso il libraio Ruggiero, da Benedetto Croce.
La pubblicazione del «Monitore» e la promulgazione, il 5 febbraio, della legge che riconosceva la libertà di stampa, risvegliarono l’istinto giornalistico del De Silva e l’interesse imprenditoriale del Coda, i quali si ripresentarono al pubblico, professando l’impegno di assumere il linguaggio della verità. Direttore del periodico fu De Silva, dotto canonico, che dal 1783 al 1785 aveva pubblicato una rivista letteraria, che comprendeva saggi di letteratura, di poesia e di scienze.
La collezione completa del periodico è costituita da ventisei fascicoli ordinari e uno supplementare, che furono pubblicati con una cadenza bisettimanale nei giorni di sabato e martedì, dal 16 febbraio al 26 maggio.Il «Corriere», dalla sede di S. Gregorio Armeno, si propose come una finestra sull’Europa e diffuse notizie di avvenimenti politici e militari, utilizzando sia corrispondenze con gli altri Stati europei sia, presumibilmente, periodici stranieri che giungevano a Napoli. I curatori del «Corriere d’Europa» espressero la volontà di servire il pubblico e per questo motivo aprirono ogni numero con un articolo riguardante la vita e le istituzione della Repubblica napoletana, riportando anche proclami e atti del governo.
Il «Corriere», proprio per la sua “europeità”, non seguì la quotidianità dei problemi connessi alle trasformazioni apportate dalla Repubblica, ma preferì soffermarsi su quegli avvenimenti o temi ritenuti di interesse generale, come quelli finanziari, religiosi, morali, o problemi come quelli derivanti dalle insorgenze, dalla coscrizione militare, dalla feudalità, dalla nomina degli amministratori pubblici. Ad esempio, per introdurre la pubblicazione della legge sull’eversione della feudalità sul «Corriere» apparve un annuncio semplice, ma significativo:
La felicità della Repubblica è fondata sulla legge dell’eguaglianza. A questo grande oggetto il governo si è occupato con molte leggi. Di gran momento e la più interessante si è considerata sempre quella dell’abolizione de’ feudi tanto desiderata da tutta la nazione. Finalmente ha veduto la luce.
Il «Corriere» sostenne uno spirito di tolleranza e di integrazione culturale e religiosa, come si evidenzia dalla proposta tesa a favorire gli ebrei e il loro culto, liberandoli da ogni sopruso. Infatti, in un articolo del 26 marzo venne riportato il discorso del ministro di polizia all’ambasciatore Bertholio in Roma:
Se mi fosse lecito proporre un mio particolare sentimento, io vorrei che si togliesse questa diversificazione degli Ebrei con farli partire dal ghetto acciocché eglino perdessero le loro maniere, e non fossero più disgiunti dall’altro popolo. La famigliarità e l’uso farebbero dimenticare la ridicola inimicizia di religione, la cui rivalità particolarmente fomentata dai Capi de’ loro culti, dai Rabbini cioè, e dai Preti verrebbe a mancare insensibilmente colla indistinta abitazione e commercio.
Il «Corriere d’Europa» si interessava, come detto, soprattutto agli avvenimenti esteri, proprio nella consapevolezza che il futuro della Repubblica napoletana e delle altre Repubbliche giacobine in Italia fosse legato al conflitto in atto tra le potenze europee: con la corrispondenza da Parigi, volle tranquillizzare i propri lettori riguardo alle sorti di Napoli, cercando di scongiurare il pericolo di un possibile utilizzo della Repubblica come pedina di scambio per equilibrare il peso delle diverse forze in campo.
L’“europeismo” del periodico venne sostenuto anche dalla solida formazione letterario-scientifica del De Silva, che dichiarò non solo di essere aperto a temi artistici, letterari e scientifici, ma anche di interessarsi alle attività agricole e commerciali, anche se solo raramente si incontrano riferimenti al commercio, con pochi esempi riguardanti le difficoltà finanziarie di alcuni Stati o della marineria di corsa. Gli altri interessi manifestati, invece, non furono nemmeno toccati, a meno che non si consideri, per una caratterizzazione letteraria, qualche piccolo annuncio della costituzione, a Torino, di una società letteraria o a pubblicazioni napoletane di vario genere; o, per una caratterizzazione scientifica, la notizia del caso di un longevo norvegese, morto a Londra all’età di 160 anni, o qualche bollettino meteorologico da Parigi con riferimenti ad un esperimento di “freddo artificiale”. Molto probabilmente il disimpegno non fu da imputare ai collaboratori, che avrebbero dovuto garantire le rispettive rubriche annunziate, ma al riguardo per il «Giornale letterario di Napoli», diretto da Aniello Nobile, interessato specificamente a temi letterari e artistici, del quale fu uno dei principali collaboratori Luigi Targioni, noto per i suoi scritti di storia dell’economia.
BIBLIOGRAFIA
- Napoli 1799. I giornali giacobini, a cura di M. Battaglini, Napoli 1988.
- A. D'ANDRIA, La libertà trionfante. Il «Corriere di Napoli e di Sicilia» del 1799, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 2020.
Il festival “Eminalis”, in programma dal 25 al 27 luglio presso Palazzo Fortunato a Rionero in Vulture, si propone di recuperare e reinterpretare questo segno antico come emblema identitario e culturale della comunità locale. L’iniziativa, promossa dall’ArcheoClub del Vulture, si inserisce nel solco della valorizzazione del patrimonio storico-archeologico della regione, proponendosi come momento di riflessione e condivisione collettiva. L’antico bollo “Eminalis” si trasforma così in un logo e in un nome carico di significati simbolici, capace di connettere la memoria storica del territorio con le pratiche culturali del presente.
Durante il ventennio fascista, la Basilicata fu integrata nella rete nazionale dei luoghi di confino politico e dei campi di internamento civile e militare, attivati prima come strumento di controllo dell'opposizione interna, poi come misura repressiva durante la Seconda guerra mondiale. Questo processo, che coinvolse numerosi piccoli centri lucani, rivela come l’apparente marginalità geografica della regione si sia trasformata in uno degli elementi cardine della politica di isolamento e repressione adottata dal regime.
Con l’entrata in guerra dell’Italia nel giugno del 1940, il sistema repressivo si estese anche ai cosiddetti “internati civili nemici”, ovvero cittadini stranieri considerati ostili per ragioni etniche, religiose o politiche. In particolare, la Basilicata ospitò numerosi ebrei stranieri, antifascisti slavi, greci, albanesi e prigionieri di guerra alleati, provenienti soprattutto dal fronte mediterraneo. Paesi come Ferrandina, Tursi, Montescaglioso, Matera e Genzano di Lucania furono utilizzati per sistemare questi internati, talvolta alloggiati in edifici civili riconvertiti all’uso detentivo, come ex conventi, caserme dismesse o palazzi municipali. Le condizioni di vita erano spesso precarie: mancavano servizi igienici adeguati, le restrizioni alla libertà personale erano severe, e l’alimentazione era insufficiente.
L’ebreo jugoslavo Josip N. internato a Ferrandina nel 1941 scriveva alla moglie rimasta in Croazia: «Dormiamo su pagliericci stesi a terra, il cibo è scarso e la posta arriva con mesi di ritardo. Ma i bambini ci sorridono, e i vecchi del paese ci portano pane e olive». Alcune lettere, conservate presso l’Archivio Centrale dello Stato, testimoniano che, nonostante la sorveglianza, si instaurarono in alcuni casi rapporti di solidarietà con la popolazione locale.
Questa geografia dell’internamento evidenzia come, nel cuore della provincia italiana, si sia svolta una parte significativa della strategia fascista di isolamento politico e “contenimento” dei soggetti ritenuti pericolosi per la sicurezza dello Stato. La Basilicata, in questo senso, rappresenta un osservatorio privilegiato per comprendere le modalità concrete attraverso cui il regime ha agito sulla società civile, utilizzando la marginalità come risorsa politica. In una testimonianza raccolta nel dopoguerra, una donna di Genzano di Lucania raccontava: «Quei poveretti non avevano colpe. Noi li aiutavamo come potevamo. Poi, un giorno, vennero i tedeschi e li portarono via. Alcuni non tornarono mai più». Recuperare la memoria di questi luoghi significa restituire dignità a quanti vi furono relegati e riscoprire una pagina ancora poco conosciuta della storia italiana del Novecento.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
* Petricelli, Emilio, Internati e confinati in Basilicata (1940–1943), Matera, Libreria dell'Arco, 2002.
* Giovagnoli, Agostino, Il fascismo e la questione meridionale, Il Mulino, Bologna, 1981.
* Baldissin Molli, Matteo, I campi del duce. L'internamento civile nell'Italia fascista (1940–1943), Bollati Boringhieri, Torino, 2001.
FONTE: B. CROCE, Storia del regno di Napoli , a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1992, pp. 124-125.