giovedì 26 giugno 2025

La Basilicata contemporanea. 48. Giustino Fortunato e la ferrovia Rionero-Potenza

 Nella inaugurazione del tronco di ferrovia da Rionero a Potenza

(21 settembre 1897) 

Mi è grato, onorevoli Ministri de’ lavori pubblici, delle finanze e della giustizia, signori del Consiglio provinciale di Basilicata e della Società per le strade ferrate Meridionali, di dare a voi tutti il saluto de’ miei conterranei del Circondario di Melfi, - oggi più che mai consapevoli di quale benefizio essi siano debitori allo Stato, che questa loro ferrovia ha voluta, alla Pro-vincia, che l’ha sussidiata, alla Società, che l’ha eseguita. Voi, o quelli fra voi che più intimamente mi conoscono, potete comprendere da quanta commozione sia vinto l’animo mio nell’ adempiere, dinnanzi a voi, un così affettuoso, doveroso mandato. 


Sono diciotto anni, proprio in questo scorcio del settembre, che un anonimo, il migliore più dimestico de’ miei amici, scriveva da un comune del Vùlture a un giornale di Roma le seguenti parole: «se per saggezza di popolo e di governi l’Italia godrà tale un periodo di pace operosa e di provvido raccoglimento da potere tradurre in atto tutto quanto il disegno ferroviario del 29 luglio 1879, che in caso contrario resterà documento e monumento di leggerezza parlamentare, il Circondario di Melfi avrà raggiunta la mèta e assicurata la sua rigenerazione ». 

Or io non so fino a che punto e popolo e governi abbiano corrisposto alle previsioni dell’anonimo di diciotto anni addietro, all’augurio di saggezza, alle speranze di pace e di raccoglimento; ma questo io so che l’Italia, nonostante le tempeste della sua //74// vita politica, le terribili sue ore di angoscia e di affanno, ha mantenuta, religiosamente, la fede promessa. Il tronco di ferrovia, che di qui a poco percorreremo, è l’ultimo della rete complementare decretata nel 1879, l’ultimo de’ quindici mila chilometri, costruiti dopo il 1860, l’ultimo della fitta maglia di ferro, tessuta da un capo all’altro del Regno intorno a Roma, ove già convergevano, presso l’aurea colonna miliare di Augusto, tutte le antiche strade della penisola. Così il voto della generazione cui dobbiamo l’unità della patria, è sciolto nel giorno dopo l’anniversario di Porta Pia: sciolto, anche prima del ventennio prescritto, in queste remote valli, in questi estremi gioghi dell’Appennino meridionale! 

Per ciò, o signori, l’importanza morale del fatto eccede di gran lunga qualsiasi benemerenza di persone, qualsiasi calcolo di utilità immediate. A ben altre considerazioni, in un’ora tanto solenne, giova inspirare e l’animo e la mente. Noi non festeggiamo qui la vittoria di un interesse locale, non siamo qui per dare o ricevere congratulazioni e lodi per l’opera compiuta. 

Che cosa mai valgono i titoli di merito dell’uno o dell’altro fra noi, che cosa mai importa lo stesso tornaconto della terra natale, dinnanzi alla grande affermazione che l’Italia, guardando fiduciosa nell’avvenire, non sorretta da altro se non da fini altamente ideali, ha fatta, mediante le ferrovie, della sua unificazione politica? 

L’unificazione politica! Pareva, più che un sogno, una follia, data la singolare configurazione del nostro paese. Certo, non vi è regione come l’Italia che abbia un’individualità fisica più netta e distinta; ma, in tanta armonia esteriore, quanti ostacoli da un versante all’altro dell’Appennino, quali contrasti dal Piemonte e dal Veneto alle Puglie e alla Sicilia ! Nessun paese è meno accentrato del nostro, nessuno ha più difficili le vie naturali di comunicazione interna, nessuno un maggior numero, una maggiore varietà di distretti geografici: un vero semenzaio di staterelli, obbligati, per vivere, a creare, a fomentare il disgregamento //75// politico della nazione. Cosi la struttura della penisola è stata causa principale della nostra debolezza, e tutta la nostra storia ne ha risentite le dolorose conseguenze. L’Italia assimilò o respinse i molti elementi che le affluirono da tutti i valichi delle Alpi, da tutte le prode de’ suoi mari; ma essa, dacché fu rotto il fascio di Roma imperiale, non giunse mai più a ricomporsi in unità, a salvare la sua indipendenza. Che anzi uno strano dualismo, una fatale divisione si andò via via accentuando tra il Settentrione e il Mezzogiorno; e toccò a noi meridionali, tagliati fuori da tutte le correnti della civiltà, scontare più duramente il funesto privilegio dell’autonomia. Non abbiamo noi forse, anche oggi, due Italie in una? La impressione del viaggiatore, che percorre la penisola dal Po alle Calabrie, non è forse, anche oggi, quella di passare in pochi giorni, in poche ore, dall’ Europa a’ paesi di Levante? Non avete voi stessi, questa mane, lasciando Napoli e la Campania, attraversate intere plaghe deserte, i cui villaggi, in cima alle alture, sono tuttora come chiusi entro mura feudali? 

E però, se il moto unitario del 1860, frutto di un processo meramente letterario e della buona fortuna, ha potuto, malgrado tutto, avere consistenza e vitalità, ciò è dovuto all’impulso di un fatto assolutamente artificiale, all’efficacia di una causa esclusivamente tecnica: le ferrovie. L’unificazione politica non è stata possibile una seconda volta, senza l’unificazione geografica. Le strade ferrate, correggendo il vizio di conformazione, e seguendo le stesse tracce delle grandi vie lastricate, di cui il genio di Roma volle solcata l’Italia, hanno compiuto il miracolo. Gl’ingegneri, i costruttori e gli operai valsero, per l’unificazione della patria, non meno de’ màrtiri, degli statisti e de’ soldati. 

Esse l’han fatta, ed esse, ho fede, le daranno vigore e durata, sia suscitando il comune sentimento della vita nazionale, sia improntando di un solo significato la nostra storia avvenire. 

La rivoluzione intellettuale, per esse, io spero, sarà pari alla rivoluzione sociale, e le due Italie, più presto che non si immagini, si fonderanno spiritualmente in una, ricambiandosi la miglior parte di sé, la parte più nobile della loro coscienza. - //76//

Un gran cattivo affare finanziario, senza dubbio, le leggi ferroviarie del 1879 e del 1888! 

Un cattivo affare, quello delle strade ferrate, a cui sono stati trascinati, come pare, tutti i popoli civili della terra... Non sono ancora trascorsi settant’anni dalla prima locomobile a vapore di Stephenson, e già da un capo all’altro del mondo si stendono settecento mila chilometri di ferrovie, de’ quali duecento cinquanta mila ne’ soli Stati di Europa. La trasformazione subitanea de’ mezzi di comunicazione, che ha avuto per effetto di accelerare prodigiosamente i trasporti, riducendone il costo e scemandone i pericoli ; questa enorme diminuzione delle distanze, che è certo il maggiore avvenimento del secolo, sbalordisce. 

Ieri appena, nell’ arrischiare un viaggio per le nostre contrade, non bisognava forse a’ padri nostri quell’aes triplex, di cui Orazio diceva corazzato l’animo de’ primi navigatori ? 

Tutto è mutato, nel corso di due sole generazioni. L’universale livellamento de’ prezzi non è più un’allucinazione di mente inferma, e nella lista delle miserie umane più non figura la carestia: il monopolio della rendita fondiaria è scemato, e la bonifica delle terre meno fertili è resa possibile. Arago scriveva, nel 1838: « non si redime una provincia né si allieta una re- gione, piantandovi delle rotaie di ferro ». Eppure in un quarto di secolo le strade ferrate hanno risanata la Sologna, in un decennio estesa la sicurezza delle campagne a tutta quanta l’Italia meridionale, a cui tante volte e in tanti modi queste povere strade ferrate sono state rinfacciate e rimproverate. 

Thiers profetizzava, nel 1856: «la vaporiera non darà la pace a’ regni, né la giustizia a’ popoli ». Eppure non mai come ora i regni paventano la guerra, non mai come ora i popoli aborrono dalla frode e dalla violenza. Dacché mondo è mondo, niente ha contribuito di più a una minore ineguaglianza delle condizioni sociali quanto la odierna mobilità di uomini e di cose, che desta i cuori a una maggiore capacità di intendere e di sentire, che eleva il pensiero a una più larga //77// contemplazione, a una più retta aspirazione della vita. Certo, vi è pure chi ha la malinconia di rimpiangere, in tutto o in parte, il passato. Ma, almeno, finché l’ora non è suonata della grande apocalisse, predetta o temuta dagl’ideologi, sia lecito a me, non ottimista, ma non ignaro né immemore della profonda tristezza de’ tempi andati, di ripetere ancora una volta, qui, tra’ miei comprovinciali, che l’Italia di oggi è incomparabilmente più buona dell’ Italia di ieri, e quella dell’avvenire migliore della presente, perché il dominio della ragione, piaccia o non, si va sempre più diffondendo ne’ motivi morali, negli abiti intellettuali delle nostre moltitudini. 

Vi si diffonde e penetra con la stessa ansia, la stessa alacrità, con cui la macchina del treno inaugurale, or ora, ascenderà e traverserà l’Appennino di Avigliano. Non gli avi lontani, ma noi stessi, pochi anni addietro, non avremmo potuto immaginar tanto! Sappiamo noi forse che cosa sarà mai il domani? Vi è nota la storia di quell’archeologo, che in una tomba egiziana scopri un pugno di grano, rimasto cinque mila anni, accanto alla mummia, senza mai rivedere il sole. Potevano i germi di que’ chicchi appassiti ridare le spighe a’ venti? Pareva di no. Ma il grano de’ Faraoni, sparso nelle zolle e fecondato dalle acque del Nilo, tornò a sbocciare i teneri steli alla carezza dell’aria nativa. Chi può dire che dal seno inesauribile di questa madre antica, la dolce terra d’Italia, non debbano erompere, premio all’ardimento della generazione che tanto osò per noi, che per noi e per queste nostre ferrovie dell’Ofanto né mosse da fini di lucro né lesinò il pubblico danaro (I); chi può dire non debbano erompere, un giorno, frutti di vita nuova e di giovinezza? 

Ah no, non può il mondo avere speso cento ottantaquattro miliardi circa, non può l’Italia averne dati via cinque, nelle //78// costruzioni ferroviarie, senza la speranza, senza il presentimento di una più felice età futura! Que’ cinque miliardi a noi non rendono, è vero, se non l’uno e mezzo per cento. Ma il sagrifizio sarà stato lieve, e benedetti coloro che han saputo affrontarlo, se noi otterremo che il primo e immediato scopo dell’opera, lo spirito di coesione nazionale, sia interamente raggiunto; se non dimenticheremo che il nuovo Stato unitario è un ente politico ancora assai debole : debole, soprattutto, per il difetto di fiducia, per la mancanza di consenso da parte de’ lavoratori della terra. La salute è in noi, nel morale rinnovamento di tutto il costume, di tutta l’anima nostra, qualora da questo gran dramma, che è la vita sociale moderna, noi vorremo trarre, sul serio, forza alla religione del dovere, nutrimento alle più pure energie del carattere. Quel che occorre, principalmente, è una visione schietta, un senso preciso della realtà penosa e dura, del vero quale proprio esso è, non quale, per vecchio abito di rettorica, noi lo sogniamo o ci lusinghiamo che sia. Troppo crediamo ancora nel pregiudizio delle ricchezze latenti, della feracità di suolo, della bontà di clima di tanta parte del nostro paese: troppo mostriamo ancora ignorare che il terzo di tutto il reddito lordo della nazione è assorbito, ormai, dalle imposte, i quattro quinti del bilancio dello Stato e de’ Corpi locali da spese, per un verso o per l’altro, intangibili. Or se è bene esser temuti all’estero, è anche meglio poter vivere sicuri e laboriosi all’interno. Vogliamo giungere in porto e scongiurare il pericolo? Rammentiamoci, al punto ove siamo, che data la nostra potenzialità effettiva, ogni aumento di pubblici gravami è una colpa, ogni nuovo debito, sotto qualunque forma e per qualsiasi motivo, un delitto: ciò che vale, in lingua povera, far punto con tutte le illusioni, con tutte le ubbie. L’ Italia agricola, risoluto il problema della viabilità, in cui è la massima sua guarentigia, non ha bisogno se non di questo: che l’interesse del capitale sia, il più che possibile, mite; ciò che importa, semplicemente, libera disponibilità del risparmio nazionale. Questo, o l’inganno e la rovina. E la rovina, per noi classi dirigenti, vorrà dire il rammarico, forse anche il rimorso che tanta //79// genialità e tanta virtù furono invano, che fu invano tutto il dolore, tutto l’amore nostro per l’unificazione politica della patria. . . 

Onorevoli Ministri, signori consiglieri provinciali e rappresentanti la Società, nel nome a me caro del Circondario di Melfi, la bella e ricca plaga del Vùlture, onde si diffusero lungi le prime glorie, le prime leggi della monarchia meridionale; nel nome suo, e con l’animo infinitamente devoto, io alzo il bicchiere e bevo allo Stato italiano, alla sua saldezza, alla sua prosperità !

FONTE: G. Fortunato, Delle strade ferrale Ofantine, scritti e discorsi (1880-1897), Firenze, tip. G. Barbèra, 1898.

domenica 22 giugno 2025

Riflettere sulla didattica della storia. A margine di un testo del 2025


Il testo di Angelo Lacerenza, Il brigantaggio meridionale dopo l'Unità d'Italia: tra storiografia, identizzazione e mitizzazione (Avigliano, Pisani Teodosio Edizioni, 2025) offre un ottimo spunto a docenti e studenti di storia partendo dal tema del brigante, vero e proprio elemento cardine della mitopoiesi delle "piccole patrie". 

Un elemento, questo, affermatosi in maniera prepotente (e preoccupante) in contrapposizione al 150mo dell'Unitá d'Italia, come perno del revanscismo neoborbonico e di quel sovranismo "social" di bassa lega che ha - come evidenziato da Lacerenza - elementi di spicco nelle tifoserie di centri come Rionero in Vulture e lo stesso capoluogo regionale, Potenza, che di Carmine Crocco fanno il loro simbolo. 

Ma perché il pubblico finisce per credere che i briganti siano portabandiera della libertà? La risposta è complessa, ma tra i fattori si può evidenziare il fatto che manchi un ruolo della scuola nell'educare a una fruizione consapevole della Storia (come evidenziato da Francesco Benigno nel suo recente La Storia al tempo dell'oggi). Manca, di fatto, un ruolo normativo della Scuola non perché non ci sia una didattica appropriata (checché ne dica la più retriva accademia italiana), ma perché sono gli stessi manuali ad essere carenti relativamente ad uno snodo storico non solo meridionale, ma dell'Italia tutta. Si dovrebbe, dunque, rimediare riportando al centro della didattica non solo il racconto, ma anche e soprattutto lo studio di casi.

In questo, assume rilevanza peculiare e fruttuosa la Public History, che ha un ruolo notevole nel divulgare seriamente, uscendo fuori dai recinti dolorosamente autoreferenziali della ricerca accademica, insegnando un'analisi critica anche delle informazioni reperibili sul web, che, laddove siano errate, vanno decostruire con un lavoro di confronto con le fonti, in un fruttuoso intreccio tra vecchio e nuovo atto a creare uno storytelling razionale contrapposto a quello "emozionale" del "brigante gentiluomo" che (sottolinea ancora Lacerenza) non è e non può essere interpretato come il classico bandito sociale sulla cui figura si basano tante disinvolte rappresentazioni anche di matrice bassamente turistica.

La didattica a scuola deve (e in molti casi sta cercando di farlo), anche con testi come quello di Angelo Lacerenza, far capire agli studenti come la storia viene e venne vissuta, rispondendo, secondo l'invito di Benigno nel suo libro, a revisonismi, sovranismi e negazionismi di vario genere.

giovedì 5 giugno 2025

Santi di Basilicata. 9. Madonna del Carmine

La festa liturgica della Madonna del Carmine fu istituita per commemorare l’apparizione il 16 luglio 1251 a san Simone Stock (Aylesford, 1165 circa – Bordeaux, 16 maggio 1265), priore generale dell’Ordine carmelitano, in cui la Madonna gli consegnò uno scapolare (dal latino scapula, spalla) in tessuto, rivelandogli notevoli privilegi connessi al suo culto.

Il 16 luglio del 1251 la Vergine Maria, circondata dagli Angeli e con Gesù Bambino in braccio, apparve al santo e, consegnandogli, appunto, lo scapolare, gli avrebbe detto: «Prendi, o figlio dilettissimo, questo Scapolare del tuo Ordine, come segno distintivo della mia Confraternita. Ecco un segno di salute, di salvezza nei pericoli, di alleanza e di pace con voi in sempiterno. Chi morrà vestito di questo abito non soffrirà il fuoco eterno» (le parole della Vergine sono sintetizzate nella formula latina Protego nunc, in morte juvo, post funera salvo!).

L’immagine della Madonna del Carmine è avvolta in un manto sul quale, di solito, sono raffigurate una o tre stelle, indicanti la perpetua verginità di Maria (prima, durante e dopo il parto), con Gesù Bambino in braccio o sulle ginocchia, nell’atto di offrire lo «Scapolare». Quest'ultimo, detto anche «abitino», è soprattutto una forma simbolica di «rivestimento», un richiamo di appartenenza, con cui si enuncia l’appartenenza a Maria.

La Madonna del Carmine è venerata nell'omonimo santuario di Avigliano (PZ). 

giovedì 22 maggio 2025

Personaggi. 34. Francesco Torraca, il dantista per eccellenza

Nato a Pietrapertosa nel 1853 dal notaio Luigi e Anna Maria Zottarelli, la sua famiglia (di nobili origini) professava ideali liberali: due suoi fratelli combatterono sotto il comando di Giuseppe Garibaldi, uno fu ufficiale dei garibaldini, l'altro fu un membro degli insorti che da Pietrapertosa giunse presso il comitato insurrezionale della Basilicata a Corleto Perticara, entrambi seguirono Garibaldi fino al Volturno.

Allievo nell'università di Napoli di Luigi Settembrini e soprattutto di Francesco De Sanctis, di quest'ultimo divenne il trascrittore ufficiale, pubblicando le sue lezioni su giornali. In questo periodo consolidò la sua formazione e condusse ricerche archivistiche che gli diedero notorietà nazionale.

Nel 1888 provveditore agli studi della provincia di Forlì, tornando in seguito a Roma in veste di funzionario del ministero della Pubblica Istruzione. Successivamente, Emanuele Gianturco, a quel tempo ministro dell'Istruzione, lo nominò Capo di Gabinetto; fu poi professore, a Napoli (1902-28), di letterature comparate e poi di letteratura italiana. Senatore dal 1920; socio nazionale dei Lincei (1932). 

Erudito di eccezionale apertura, dominò, oltre che l'italiana, anche le letterature provenzale e francese, soprattutto del Medioevo; tra i suoi molti scritti vanno particolarmente segnalati gli Studi per la lirica italiana del Duecento (1902), le indagini per la biografia di Giovanni Boccaccio (1912) e quelle su Dante, che culminarono nel magistrale commento alla Divina Commedia (1a ed. 1905).

Morì a Napoli nel 1938.

giovedì 8 maggio 2025

Potenza. 9. Raffaele Acerenza (A. L. Larotonda)

 

FONTE: Voce di A. L. Larotonda in Id., Riprendiamoci la Storia. Dizionario dei Lucani, Milano, Electa, 2013. 

mercoledì 7 maggio 2025

Certamen delle Scienze Umane: a Potenza la seconda edizione

Non una semplice gara, ma un coronamento di un lungo e ricco percorso con incontri, iniziative e riflessioni sulla figura di Ernesto De Martino, con il primario intento di diffondere e valorizzare il pensiero dell’antropologo della società contemporanea, scomparso mezzo secolo fa.

Il concorso ideato e realizzato dal Liceo delle Scienze Umane “Rosa-Gianturco” di Potenza non solo intende avvicinare molti luoghi culturali, ma intende far scoprire ai giovani l’attualità di uno studioso della magica cultura contadina meridionale, lucana in particolare.

I giorni dal 12 al 14 maggio 2025, dunque, vedranno impegnati gli studenti e i docenti dell'Istituto potentino, con la partecipazione di allievi anche di altri Istituti della regione, in una tre giorni dedicata al tema del villaggio della memoria. Si tratta di una metafora utilizzata dall'antropologo Ernesto De Martino per indicare il legame profondo che l'uomo ha con il proprio luogo di origine e con la propria storia. Questa "memoria del villaggio" rappresenta un senso di appartenenza, un'identità culturale e un richiamo emotivo che può influenzare le scelte e il pensiero di una persona.

La Giornata Inaugurale del 12 maggio si aprirà con un Convegno di Studio alle 16:00, nell'Auditorium del Seminario Maggiore. Agli Indirizzi di Saluto del DS Mario Lanzi seguiranno interventi dei diversi Sindaci le cui Amministrazioni concorrono al Certamen, da Sant’Arcangelo a Colobraro, da Avigliano a Viggiano. Punto focale del Convegno saranno le relazioni dei professori Ferdinando Mirizzi (UniBas) e Enzo Vinicio Alliegro (UniNa), coordinati e moderati da Rocco Gentile, docente di Scienze Umane nel Liceo "Rosa-Gianturco". 

Il 13 maggio 2025 vedrà svolgersi la vera e propria prova concorsuale, valutata da parte del Comitato Scientifico, composto dai professori Cillis, Gentile, Lacava, Lanzi, Pistone e Venezia e che sarà premiato il 14 maggio sempre nell'Auditorium del Seminario Maggiore.

Si tratta di un’iniziativa di grande interesse culturale, organizzata in occasione dei 60 anni della morte del grande antropologo Ernesto De Martino, appassionato studioso del mondo contadino lucano e meridionale, i cui scritti e il cui pensiero trovano ancora oggi un rinnovato interesse in molte parti del mondo a livello socio-antropologico e storico.

giovedì 24 aprile 2025

Personaggi. 33b. Giuseppe Pennella. II. Il generale

Nel giugno 1906 la promozione a maggiore e l'assegnamento al 1° reggimento granatieri di Sardegna segnarono il primo punto di svolta nella carriera di Giuseppe Pennella. Il comando della brigata dei granatieri diede un forte impulso ai suoi studi in materia di military training e di tattica, oltre che a legarlo indissolubilmente a quella specialità dell'arma di fanteria.

L'anno successivo pubblicò Saggi di tattica applicata per minori reparti delle tre armi (I-III, Roma 1907), seguito nel 1908 dal suo più importante lavoro editoriale Il vademecum dell'allievo ufficiale di complemento (Roma 1908). Questo testo  fu ristampato in oltre ventuno edizioni (con circa 125 mila copie vendute) e divenne uno dei più diffusi e utilizzati per l'addestramento degli ufficiali di complemento per tutta la durata della Grande Guerra. Nel vademecum emerse il carattere conservatore della visione tattica di Pennella: secondo l'autore «la parte disciplinare è quella veramente sostanziale da cui scaturisce l'attitudine all'azione collettiva» (ivi, p. 15) e per questo l'ufficiale, soprattutto se di complemento, doveva mantenere un distacco rispetto ai soldati e pretendere assoluta ubbidienza dai propri sottoposti. Per Pennella l'impatto della tecnologia bellica e della produzione industriale era ancora minoritario in una guerra dove l'elemento morale imperava su quello materiale: nella sua concezione tattica l'assalto all'arma bianca era giustificato in quanto «la baionetta è sovratutto un'arma morale; simboleggia la ferma decisione di andare fino in fondo» (ivi, p. 19). Pennella si schierò, quindi, con la scuola ‘offensivista’, maggioritaria nell'ambiente dello stato maggiore italiano e delle altre potenze europee in quegli anni, per cui la difesa poteva essere tollerata solamente se aveva la controffensiva come «suo obbiettivo supremo e finale» (ivi, p. 24).

Dopo un periodo nel corpo di stato maggiore della divisione militare di Bari fra il 1908 e il 1911, Pennella fu promosso colonnello nel luglio 1911. Nell'aprile 1915, a ridosso dell'entrata in guerra dell'Italia a fianco dell'Intesa, venne nominato capo ufficio dello scacchiere occidentale presso il corpo di stato maggiore, grazie anche ad alcune ricognizioni topografiche svolte in gioventù nell'area del confine italo-francese. All'ordine di mobilitazione del 23 maggio Pennella fu richiamato presso il comando supremo, prima, in quanto responsabile dell'ufficio armate, poi, come capo ufficio del generale Luigi Cadorna nel luglio 1915. La vicinanza e il rapporto stretto con Cadorna gli permise, nel novembre dello stesso anno, di farsi assegnare come comandante della brigata granatieri di Sardegna, che mantenne, dopo essere stato promosso maggiore generale nel marzo 1916, fino al maggio 1917. In quel periodo si distinse per il comando nella battaglia di Monte Cengio, svoltasi fra il 29 maggio e il 3 giugno 1916, e nei combattimenti attorno al Lenzuolo Bianco, nei pressi di Gorizia nell'agosto dello stesso anno, dove rimase gravemente ferito al viso, perdendo l'occhio destro. Durante l'esperienza bellica al fronte Pennella mantenne una fitta corrispondenza con la moglie Elisa e le figlie Maria e Antonietta.

Sulla sua esperienza durante quella prima fase della Grande Guerra, Pennella scrisse altresì un lungo memoriale intitolato Dodici mesi al comando della brigata granatieri (Roma 1923).

Nel maggio del 1917 gli venne conferito il comando della 35ª divisione di fanteria, che combatteva al fianco delle altre truppe dell'Intesa nel Montenegro. A causa di evidenti disaccordi con il comando francese del corpo di spedizione, fu rimpatriato in Italia e, dopo la promozione a tenente generale nell'agosto 1917, fu assegnato al comando dell'XI corpo d'armata. Nel marzo 1918 fu messo al comando della 2ª armata, poi rinominata 13ª armata, e nel giugno 1918 si distinse per la difesa del Montello, durante la battaglia del Solstizio; in quello scontro Pennella e i suoi uomini riuscirono a contenere lo sfondamento dell'offensiva austro-ungarica anche a costo di notevoli perdite e di un utilizzo draconiano della disciplina. La sua fama crebbe molto per la vittoria riportata, superando i confini della penisola fino a essere indicato l'8 settembre 1918 dal quotidiano francese Le Petit Journal, assieme a Giuliano Ricci, come il vincitore della battaglia del Solstizio.

A causa di profondi dissapori con il capo di stato maggiore Armando Diaz, Pennella fu esonerato dal comando della 13ª armata e fu ricollocato alla testa del XII corpo d'armata il 25 giugno 1918. Durante l'offensiva di Vittorio Veneto Pennella e le sue truppe liberarono i paesi di Pergine Valsugana e Giavera del Montello, dove rimase forte la memoria dell'evento e dove, dopo la sua morte, fu eretta una statua in suo onore.

Nell'agosto 1919, a guerra finita, fu assegnato al comando della zona militare di Trieste e, successivamente, gli fu conferito il comando del corpo d'armata di Firenze. Nel primo dopoguerra mantenne per un periodo limitato contatti con uomini politici, tra i quali Leonida Bissolati, ma successivamente fu emarginato da Diaz e dai nuovi comandi. A causa di questo allontanamento e della conseguente marginalizzazione, la sua salute fisica deteriorò velocemente; Pennella si rinchiuse in uno stato di quasi isolamento nella sua villa di Fiesole. Per questo motivo molti dei suoi ex commilitoni lo soprannominarono ‘il generale silenzioso’.

Morì a Firenze il 15 settembre 1925.

FONTE: Voce di M. Cristante, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma 2015, vol. 82.

La Basilicata contemporanea. 48. Giustino Fortunato e la ferrovia Rionero-Potenza

 Nella inaugurazione del tronco di ferrovia da Rionero a Potenza (21 settembre 1897)  Mi è grato, onorevoli Ministri de’ lavori pubblici, de...