Giuseppe Gattini, conte di Castel Timmari, nacque a Matera il 22 luglio 1843 da Francesco e Nicolassa Carcano. Di un'antica famiglia nobiliare della città di Matera, studiò nel collegio napoletano degli Scolopi. In effetti, i Gattini erano un'antichissima famiglia materana, tra le più antiche di quella città, che diede importanti uomini d’arme, letterati, sindaci e amministratori della cosa pubblica ininterrottamente per circa otto secoli.
Tra di essi occorre menzionare Francesco (Cicco), autore nel 1440 dell’inedito De bello neapolitano e di una genealogia della sua famiglia, Francesco (m.1785), autore di numerose opere, Giuseppe (n. 1753) celebre storico, pubblicò varie opere tra cui Memorie per la storia di Matera.
I Gattini sono considerati una delle famiglie nobili più importanti di Matera insieme ai Ferraù, ai Malvinni Malvezzi, gli Agata, gli Alemo, i Santoro, i Ricchizio, i Sinerchia, i D’Angeli, del Duce.
In epoca moderna la famiglia ha usato il titolo di conte, riferendosi alla antichissima investitura comitale di Castel di Timmari a 6 miglia da Matera, e dei due casali di Picciano e S.Maria della Palomba, che risalirebbe all’XI secolo, nella persona di Teodoberto.
Durante i moti popolari della città il 7 agosto 1860 Giuseppe Gattini subì il lutto dell'uccisione di suo padre, il conte Francesco.
Da alcuni mesi nel popolo si era affermata l'idea che alcuni proprietari terrieri avevano usurpato al demanio vaste aree del territorio comunale. Verso la fine di luglio l'agitazione popolare aumentò anche a causa delle azioni sobillatrici dei reazionari borbonici che puntarono a colpire proprietari terrieri di area liberale, cioè favorevoli all'unificazione all'Italia della terra lucana. Il re Borbone, nel tentativo di riconquistare il favore dei suoi sudditi, aveva concesso la Costituzione e decretato il riconoscimento degli usi civici delle terre demaniali.
Il popolo materano contestò con più forza i diritti di proprietà di alcuni latifondisti: il marchese Pomarici, il duca Malvezzi, il marchese Venusio, Francesco Paolo Porcari, Filippo Giudicepietro, Francesco Paolo Volpe e il conte Francesco Gattini, ma le attenzioni si spostarono principalmente su quest'ultimo, perché era il più vicino al pensiero liberale.Francesco II aveva anche decretato la concessione di un'amnistia e i reazionari materani fecero capire ai contadini che l'amnistia concedeva un'impunità di sei mesi per i reati commessi in questo periodo di tempo. E i contadini si convinsero che fosse giunto il momento di impadronirsi, con ogni mezzo, delle terre usurpate dai grandi proprietari agrari (politicamente schierati per le idee liberali).
Il Gattini, resosi conto di quello che si stava tramando, si rivolse alle autorità politiche e militari della città, nelle persone del sottointendente Francesco Frisicchio, dell'Ispettore di Polizia Giustino Pisani, del tenente di Gendarmeria Nicola Signoretti e del capo-urbano Gennaro De Miccolis, pregandoli di adottare le giuste misure per evitare l'irreparabile.Contemporaneamente scrisse al Sindaco affermando la sua disponibilità perché fosse accertato se fra i suoi terreni vi fossero appezzamenti demaniali e, in tal caso, dava la sua disponibilità a restituirli alla proprietà pubblica. Il conte fece comunicare quanto da lui deciso anche per mezzo della grida pubblica: questo atto di liberalità del Conte parve una vittoria ai rivoltosi che chiesero anche agli altri agrari e allo stesso Vescovo, sospettati di aver usurpato terre demaniali, di rilasciare analoga dichiarazione dinnanzi al Sindaco.
Allora tutti i borghesi interessati perché sospettati dai rivoltosi si recarono in delegazione dal sottointendente e dal tenente di gendarmeria per essere difesi dalle possibili angherie. Ma la risposta delle autorità fu che non vi erano istruzioni in merito. La guarnigione, forte di ben 80 uomini, non intervenne per prevenire quanto si stava preparando.
I rivoltosi, rassicurati dall'appoggio manifesto della gendarmeria, chiesero ed ottennero le dimissioni del sindaco Tommaso Giura Longo e Giovanni Corazza, eletto nuovo Sindaco, come primo atto nominò l'avvocato Giambattista Matera di Miglionico, affinché si accertasse dai documenti che presentava il Gattini la validità o meno dei titoli di proprietà. Giambattista Matera era notoriamente un liberale essendo stato, nel 1856 e nel 1857, uno dei principali capi della cospirazione "mazziniana": nominandolo, il Sindaco cercava di coinvolgerlo anche sul piano della responsabilità politica.
Il Segretario del Gattini era Francesco Laurent, musicista e liberale, agente di collegamento con il Comitato di Corleto e presidente del Comitato materano.
Ma molti erano i nemici che volevano il Gattini morto, fra tutti la maggiore responsabilità deve essere attribuita al ricco possidente Gennaro De Miccolis, comandante della Guardia Nazionale, che odiava il conte sospettandolo di aver ostacolato le sue ambizioni quando invano aveva cercato di divenire Capo-Urbano ma anche quando aveva chiesto ed ottenuto l'ultimo incarico nella Guardia Nazionale.
Il 5 e il 6 agosto fu chiaro che le cose volgevano al peggio. Il 7 agosto i contadini non andarono al lavoro e minacciarono apertamente di morte il Gattini e il Laurent, suo consigliere, dicendosi convinti che solo con il sangue i demani sarebbero stati riconquistati. Il Gattini, fece allontanare da Matera la moglie e i figli, facendoli partire per Altamura e poi per Trani.
Sul far della sera alcuni rivoltosi, dopo aver acquistato dell'acquaragia da un droghiere di Altamura, diedero fuoco al portone del palazzo Gattini. Il conte, Laurent e i camerieri riuscirono a spegnere il fuoco prima che l'incendio si propagasse al resto dell'edificio. La Guardia Nazionale, seppur avvertita, non intervenne.
Il giorno 8 alle porte della città un gran numero di facinorosi impedì ai contadini di recarsi in campagna, mentre altri percorrevano le vie della città armati, minacciando morte e distruzione.
Il Gattini, spaventato ed atterrito da quanto era accaduto e dalle notizie ricevute su quanto stava accadendo, fece sapere al sindaco per mezzo del sacerdote Contini che egli era disposto a cedere un quarto e finanche un terzo della sua proprietà con atto notarile. La sua proposta fu respinta e la folla chiese che la divisione delle terre del demanio fosse fatta seduta stante.
Un gruppo più violento iniziò a menare colpi di scure sul portone per abbatterlo, al che il conte si affacciò al balcone dicendosi disposto a cedere l'intera sua proprietà e dando notizia di aver mandato a prendere le carte dal notaio. Anzi, per dar segno della sua disponibilità lanciò le monete contenute in una borsa, ma i contadini lo presero come un atto di disprezzo nei loro confronti. Una scarica di archibugi fu la risposta della folla inferocita.
La folla sempre più numerosa riuscì ad abbattere il portone e ad entrare nel palazzo che iniziarono a devastare. Furono rubati pacchetti di monete per complessivi ducati 3361,60. Il Gattini, il nipote Enrico Appio e Francesco Laurent riuscirono a rifugiarsi, per mezzo di una scala segreta, nella stalla del Duca Malvezzi. Venne trovato un cameriere del conte, Michele Rondinone, che terrorizzato indicò dove il conte si era nascosto: il Gattini, portato fuori della stalla fra grida di scherno, ricevette i primi colpi, una stilettata alla tempia sinistra e una baionettata.
Mentre la folla gridava: “Viva il Re, morte a Gattini”, il conte venne trascinato sulla piazza e posto su una sedia dove fu colpito da una scure all'occipite. Venne posto più in alto perché tutti potessero vederlo. Il conte chiese un sorso d'acqua. Uno dei presenti, mosso a pietà, gliene portò un bicchiere, ma un altro facinoroso con un colpo fece saltare in aria il bicchiere gridando: “Cristo ebbe il veleno!”.
Un altro domestico del Gattini, Giovanni Santorsola, fattosi largo fra la folla, disse al suo padrone che il notaio non aveva potuto trovare in casa le carte necessarie per l'atto di cessione delle proprietà.
Il Gattini restò in silenzio a fissare sconfortato il proprio domestico. La folla colpì il Santorsola che, pur avendo ricevuto una scarica di bastonate e un colpo di stile, riuscì a fuggire ed a nascondersi in casa di una pietosa donna.
Nel frattempo anche Laurent venne trascinato in piazza. Come il Gattini lo vide avvicinare, esclamò: “Tu ci colpi ai guai miei”. Queste parole diedero il via ad una ferocia senza limiti. Un forcone colpì negli occhi il Laurent e poi al ventre il Gattini. Un altro popolano inferse al conte colpi di baionetta e gli assestò un colpo di mazza.
Venne preso anche Michele Rondinone e lo trascinarono dove giacevano i due cadaveri. Lo accusarono di non aver fatto consegnare le carte del padrone e smisero di colpirlo solo quando lo videro cadavere. In mezzo alle grida assordanti di "Viva il Re", i cadaveri vennero trascinati all'ultima loro dimora. Il Sottintendente, l'Ispettore di Polizia, il Tenente di gendarmeria ed il capo della Guardia Urbana si giustificarono dicendo che non potevano rischiare anche la vita dei pochi gendarmi disponibili.
Sindaco di Matera dal 1877 al 1880, Giuseppe Gattini fu nominato senatore il 4 dicembre 1890 e si dedicò assiduamente agli studi di storia locale nella sua Matera, dove morì il 21 novembre 1917. Così lo ricordò in Senato il conterraneo Domenico Ridola:
Egli fu nobile di provata antichissima nobiltà e non ne menò vanto mai, ma a questa nobiltà di sangue accoppiò una nobiltà più invidiata e più degna, la nobiltà della vita e delle azioni.
Fu di carattere mite e costante. Non ambì la gloria crudele degli eroi sterminatori di uomini e di cose nelle battaglie conquistatrici. Gli sarebbe stato assai facile, ma non lo sedusse la vanità di esser caro alla folla, che esalta oggi ed inabissa domani il proprio idolo, con la facilità spensierata e chiassosa del fanciullo, che adora per poco il suo giocattolo favorito e poi lo spezza.
Egli si chiuse in più breve campo e volle essere modesto, laborioso, rettilineo, fermo ma benevolo e cortese con tutti e fu tale sempre nelle sue qualità di conte, cittadino, consigliere comunale e provinciale, sindaco e senatore.
Non so dire con quanta cura paziente e con quale dispendio egli seppe raccogliere le opere e le memorie biografiche di coloro che avevano illustrato la sua città natale e riprodurre in altrettanti quadri i ritratti.
Non menò vanto delle medaglie e dei diplomi guadagnati in tante esposizioni di prodotti agricoli a Portici, Napoli, Torino, Londra, ecc. Né montò in superbia per la splendida accoglienza fatta alle sue preziose Note storiche sulla città di Matera, di cui si accingeva a fare una seconda edizione ampliandola di nuovi documenti da lui raccolti. Né fu orgoglioso per il plauso e le lodi che gli vennero da ogni parte ad ogni nuova pubblicazione delle tante svariate monografie sopra argomenti d’indole differente. Basta citarne qualcuna, p.e. quella sulla monumentale cattedrale di Matera, sulle razze dei cavalli del Regno di Napoli, e il preziosissimo Saggio di biblioteca basilicatese e molte altre tutte pregevoli.
Nel conversare pareva una miniera inesausta di conoscenze d’ogni genere. Era una festa dell’intelletto il discorrere con lui di storia, di araldica, di numismatica, di pittura, nella quale ultima egli stesso era un valore. Ebbe l’anima dello scienziato e dell’artista e dai suoi trionfi non trasse che maggiore incitamento al lavoro. Le primissime ore del mattino lo trovavano desto e al suo tavolo di studio in mezzo ai suoi libri, alle sue carte, ai suoi documenti.
Sopportò con animo sereno e virile anche le sciagure che si abbatterono sulla sua casa.
Ahimé tanto tesoro di operosità fattiva era chiusa, come in una parentesi, da due date dolorosissime. Il padre suo morì vittima della reazione borbonica nel 1860. L’ultimo dei suoi figli, andato soldato in servizio della patria, vi contrasse una feroce malattia che inesorabilmente lo portò al sepolcro, precedendo di poco il padre suo dilettissimo.
Fu marito e padre esemplare ed ebbe in cima dei suoi pensieri l’educare i suoi figli alla virtù, al sapere ed all’arte e ciò fece con il suo esempio, con la parola e l’opera sua.
Oggi la sua famiglia desolata si aggira nelle stanze deserte e per lunga consuetudine, rivede ancora quell’ombra adorata e ripete a buon diritto le parole di Amleto dopo l’apparizione dello spettro paterno:
Egli fu tale che a giudicarlo sotto tutti gli aspetti, non vedrò mai chi lo eguagli.
Tra le sue opere: Note storiche sulla città di Matera, Napoli, Perrotti, 1882; Saggio di biblioteca basilicatese, Matera, Tip. la Scintilla, 1908; Delle armi de' comuni della provincia di Basilicata, in "La Scintilla", X (1910), 5; XI (1911), 7.