Nato a Rionero in Vulture (prov. di Potenza) il 5 giugno 1830 da Francesco, piccolo affittuario, e da Maria Gerardi, cardatrice di lana, ricevette da uno zio un'affrettata e modestissima istruzione, che lo mise in grado di leggere e scrivere stentatamente e a cui nondimeno egli attribuì, nell'autobiografia, l'origine della sua "smisurata tendenza a voler prevalere, a voler essere qualche cosa, sia pure un grande infame". Tale tendenza venne attizzata da un acre rancore contro la prepotenza signorile, che avrebbe provocato, secondo quanto narrò ancora il Crocco, lo sfacelo della sua famiglia; ma il suo racconto è reso poco credibile da amplificazioni dei fatti e da mere invenzioni, che s'ispiravano all'archetipo plurisecolare del contadino spinto a farsi brigante per vendicare gli oltraggi patiti e l'onore offeso.
Come pastore e come contadino il Crocco lavorò dall'età di sei anni in diverse masserie della Puglia e della Basilicata, finché, nel marzo 1849, fu chiamato alle armi: da Napoli seguì il suo reggimento di artiglieria in Sicilia, per partecipare alla repressione del moto separatista, e poi, nel dicembre 1851, a Gaeta, dove disertò poco dopo, con il grado di caporale. Tornato nella sua terra e datosi alla macchia, iniziò la carriera banditesca commettendo una serie di rapine nel corso del 1852 e del 1853; catturato e condannato a diciannove anni di ferri dalla gran corte criminale di Potenza (13 ottobre 1855), evase dal bagno penale di Brindisi, nel dicembre 1859, e ricominciò a ladroneggiare.
Quando, nell'imminenza dell'arrivo di Garibaldi, Potenza insorse contro i Borbone (18 agosto 1860), il Crocco si aggregò ai patrioti, sperando che il nuovo Stato unitario avrebbe dimenticato i suoi passati delitti. Presto, però, si avvide che le promesse dategli in proposito dai capi liberali potentini non venivano tenute in nessuna considerazione dall'autorità giudiziaria, sicché, per evitare la cattura, il 7 genn. 1861, si rese latitante e tentò invano di espatriare in Grecia da un porto pugliese. Arrestato a Cerignola (Foggia) il 27 gennaio, riuscì di nuovo ad evadere dopo solo otto giorni di detenzione grazie al favore della potentissima famiglia dei Fortunato. e si rifugiò nelle foreste del Vulture, dove si pose alla testa di una dozzina di grassatori.
Venne allora istigato dai gruppi borbonici attivi nel Melfese a fare della sua banda lo stato maggiore di un esercito sanfedista che accendesse la controrivoluzione nel circondario, e allo scopo gli furono procurati uomini e denaro; quantunque avesse "costantemente abborrito" Francesco II, il Crocco si lanciò tuttavia nell'avventura reazionaria, perché si sentiva "sicuro di ricavarne guadagno e gloria". Al termine di preparativi durati per tutto il marzo del 1861, tra il 5 e il 7 aprile, nel bosco di Lagopesole, si raccolsero sotto il suo comando circa cinquecento uomini armati inadeguatamente, che provenivano per lo più dallo sfascio dell'esercito napoletano. Sbaragliando deboli drappelli di guardie nazionali, questa colonna invase i paesi di Ripacandida (8 aprile), Venosa (10 aprile), Lavello (14 aprile), nei quali proclamò una effimera restaurazione borbonica, con la connivenza dei notabili legittimisti, e si sfrenò in saccheggi, distruzioni ed eccidi di liberali, con il concorso della plebe più misera.
Mentre scoppiavano sommosse in numerosi altri centri della provincia, la sera del 15 aprile Crocco entrò in Melfi, accolto trionfalmente dalla popolazione e dal governo provvisorio, già costituito dal 12, e vi si trattenne due giorni, durante i quali riordinò la sua masnada, che si era rapidamente accresciuta, in centurie agli ordini di capitani e in reggimenti agli ordini di colonnelli, riservando a se stesso il grado di generale. Fallita la presa di Rionero da un suo luogotenente, evacuò Melfi all'alba del 18 per effettuare, tra il 18 e il 22, una scorreria nell'alta Irpinia, con occupazione dei comuni di Monteverde, Carbonara, Calitri e Sant'Andrea. Il 23, per sfuggire all'accerchiamento delle truppe regolari e delle milizie civiche convergenti nella zona, ricondusse il nerbo delle sue schiere nel sicuro asilo di Lagopesole. Quali manutengoli del Crocco furono arrestati, tra gli altri, i più cospicui cittadini di Melfi, L. Aquilecchia e C. Colabella (20 apr. 1861), e di Rionero, P. Catena e i fratelli Fortunato (18 dic. 1861); ma vennero prosciolti in istruttoria sia i primi (7 genn. 1863) sia i secondi (8 luglio 1862), con sentenze che non eliminarono i sospetti della pubblica opinione. È difficile ormai misurare le responsabilità di costoro, anche perché molte carte processuali che li concernevano sono scomparse. Giustino Fortunato, che restò ossessionato dallo spettro del Crocco, raccolse "tutta una biblioteca di libri e mss. intorno a lui", ma non scrisse mai quell'opera sul brigantaggio del Melfese che vagheggiò a lungo di compilare, per dimostrare l'innocenza del padre, Giuseppe, e degli zii, Gennaro e Pasquale.
Quando l'ordine sembrava ristabilito in Basilicata dalla durissima repressione militare, il 10 agosto il Crocco mise a sacco Ruvo del Monte, e il 14 nella macchia di Toppacivita, respinse un assalto di fanti, bersaglieri e guardie nazionali, dopo un aspro combattimento in cui rivelò la propria abilità tattica. Ormai egli non rivestiva più con pretesti politici il suo agire brigantesco e affermava la sua preminenza su parecchi rinomati capibanda, quali G. Fortunato (Coppa), G. N. Summa (Ninco Nanco), G. Caruso, P. Cavalcante, T. Gioseffi (Caporal Teodoro), A. Sacchitiello, G. Schiavone, P. Serravalle, D. Tortora.
Il 22 ottobre Crocco s'incontrò nel bosco di Lagopesole con una quindicina di spagnoli, ex ufficiali del disciolto esercito carlista, che, al comando dell'ex generale José Borjes, erano stati inviati nel Mezzogiorno, per sollevarlo, dalla corte borbonica in esilio, e qualche giorno dopo fu raggiunto dall'avventuriero francese A. de Langlais, presumibilmente emissario di Napoleone III. Subito il C. manifestò un beffardo disprezzo per la fedeltà del Borjes all'ideale legittimista, ma aderì al suo progetto di riaccendere la rivolta reazionaria in Basilicata, confidando, anche in questa occasione, di "arricchire col saccheggio e coi ricatti".
Ebbe inizio così una spedizione micidiale che devastò, tra il 3 e il 16 novembre, Trivigno, Calciano, Garaguso, Salandra, Craco, Aliano, Stigliano, Cirigliano, Grassano, San Chirico, Vaglio. Il Borjes fornì il decisivo apporto della sua perizia guerresca nella conquista di questi paesi e nella vittoria contro le truppe regolari al mulino dell'Acinello (10 novembre), presso il torrente Sauro, ma non ebbe quasi nessuna autorità sui briganti, come continuò a lamentare nel suo diario. né poté impedire efferratezze che lo inorridirono. Il suo scarso prestigio svanì del tutto dopo l'insuccesso dell'attacco su Potenza - insuccesso cui non fu estraneo l'ambiguo contegno del C. - e la sconfitta di Pietragalla (17 novembre): egli e i suoi spagnoli vennero destituiti dai comandi (20 novembre) e come soldati semplici parteciparono alla invasione di Bella (22 novembre), Ricigliano (24 novembre), Pescopagano (26 novembre).
Ormai i duemila uomini dell'orda brigantesca erano stanchi, sazi di preda, minacciati dall'avanzare dell'inverno e incalzati da reparti della brigata Acqui: Crocco li ricondusse sul Vulture, dove ne disarmò e congedò la maggior parte (27 novembre), e divise i rimanenti in piccoli gruppi. Il Borjes, deluso, s'incamminò verso Roma con pochi compagni, ma venne catturato e fucilato, l'8 dicembre, a Tagliacozzo (L'Aquila). Dal fallimento del suo tentativo di promuovere nel Mezzogiorno la guerriglia in nome di Francesco II, emergevano netti i limiti del brigantaggio postunitario, affatto incapace d'indicare uno sbocco, nonché politico, neppure militare, alla protesta contadina, di cui restava peraltro un sintomo vistoso.
Dopo la partenza del Borjes, Crocco non osò più operazioni in grande stile e si restituì definitivamente al mero malandrinaggio, che praticò anche in danno di possidenti borbonici e in un'area estesa alla Puglia e al Molise. Alla testa, per lo più, di bande poco numerose, si dette a perpetrare razzie di bestiame e di vettovaglie, aggressioni di viandanti, assalti di corriere, saccheggi di masserie, evitando di scontrarsi con le truppe, tranne che non riuscisse ad attirare piccoli distaccamenti in imboscate sterminatrici, che replicavano atrocemente alle spietate misure repressive dell'esercito, autorizzate dalla legislazione eccezionale.
Dall'aprile al settembre del 1862, fiancheggiato spesso dal Sacchitiello, inflisse perdite gravissime a drappelli di fanti e di bersaglieri in alta Irpinia; il 4 novembre, insieme con il ferocissimo capobanda pugliese M. Caruso, trucidò una mezza compagnia del 360 reggimento di fanteria presso Santa Croce di Magliano (Campobasso); nel corso del 1863 massacrò due plotoni di cavalleggeri di Saluzzo tra Melfi e Venosa, il primo alla masseria Catapano (12 marzo), il secondo alla masseria Casella (26 luglio). Nonostante la condotta disumana di entrambe le parti in lotta, appena fu pubblicata la legge Pica (15 ag. 1863), s'intavolarono trattative che avrebbero dovuto condurre alla resa del Crocco, e invece non andarono oltre uno scandaloso convegno, tenuto a Rionero, tra i più noti capibriganti e le più alte autorità militari della regione (7 settembre).
All'inizio del 1864, dopo aver sgominato le bande del Beneventano e della Capitanata, il generale E. Pallavicini di Priola trasferì il suo quartier generale a Spinazzola (Bari) e cominciò ad aggredire il brigantaggio lucano, dal versante pugliese, con una strategia assai più dinamica di quella dei suoi predecessori. Quantunque il C. ricorresse a tutta la sua astuzia guerrigliera, che venne riconosciuta dallo stesso Pallavicini, si trovò presto in difficoltà; tra l'altro, in marzo, venne preso e ucciso Ninco Nanco, il più fedele dei suoi luogotenenti.
Nel giugno 1864 Pallavicini sostituì il generale Franzini nel comando della zona militare unificata di Melfi e Lacedonia, risoluto a sferrare il colpo finale, e allo scopo si avvalse spregiudicatamente della collaborazione offertagli da G. Caruso, ex luogotenente del Crocco; costui, infatti, consegnatosi nel settembre 1863, aveva messo a disposizione delle forze repressive la sua preziosa conoscenza di nascondigli, informatori e stratagemmi del suo antico capo. La banda del Crocco fu braccata senza tregua finché, il 25 luglio 1864, subì una disfatta rovinosa, insieme alla banda di Schiavone, sul fiume Ofanto, tra il ponte di S. Venere e il "passaturo" Canestrelli.
Scampato fortunosamente, Crocco giudicò persa la partita, e poiché non era posseduto da quella tenebrosa pulsione autodistruttiva che contrassegnava la psicologia di parecchi illustri briganti, si preoccupò innanzitutto di salvarsi. Il 28 luglio sì avviò verso lo Stato pontificio, seguito da una decina dei suoi, e vi giunse il 24 agosto con quattro superstiti e con una grossa somma di denaro. A Roma sperava di far valere le proprie benemerenze legittimiste, invece fu imprigionato con l'accusa di essere responsabile della morte del Bories. Assolto da tale imputazione, non riebbe la libertà, perché la sua scarcerazione avrebbe irritato il governo italiano; tuttavia non gli vennero contestati altri reati, perché si temeva che da un processo a suo carico emergessero le ingerenze pontificie nei moti reazionari lucani. Il governo romano cercò di liberarsi di questo scomodo prigioniero, imbarcandolo per l'Algeria nell'aprile 1867, ma il governo francese lo intercettò a Marsiglia e, dopo una breve detenzione, lo rispedi a Roma.
Nel settembre 1870 il C. fu trovato dalle truppe italiane nel forte di Paliano (Frosinone), da dove venne tradotto rielle carceri di Avellino (giugno 1871), e successivamente in quelle di Potenza (luglio 1872). Qui fu processato e condannato a morte con sentenza emessa dalla corte d'assise l'11 settembre 1872, ma con decreto reale del 13 settembre 1874 la pena capitale fu commutata, per soddisfare probabilmente "il volere francese", in quella dei lavori forzati a vita, che egli scontò nei penitenziari di Santo Stefano e di Portoferraio.
Durante la reclusione il Crocco ebbe modo di attendere all'autobiografia, di cui stese almeno due redazioni, assai diverse per contenuto: quella più nota, pubblicata dall'ufficiale di fanteria E. Massa, fu sottoposta, col consenso dell'autore, a una pedantesca emendazione della forma dialettale; dell'altra furono pubblicati dall'antropologo criminale F. Cascella alcuni frammenti che, non avendo subito nessuna revisione linguistica, conservano un singolare fascino letterario, proprio per la scrittura rudemente espressiva.
Entrambi i testi, rari documenti della mentalità brigantesca, offrono nel complesso una fondamentale testimonianza sulle vicende di cui l'autore fu protagonista e sulle ragioni della sua condotta: sebbene egli mentisse su taluni fatti e sorvolasse su altri, ad es. tacendo i nomi dei suoi manutengoli, fu sostanzialmente sincero nel parlare di se stesso. Con sfrontatezza confessò la propria vocazione al "libero ladroneggio", esente da qualsiasi ipoteca ideologica, e rimpianse di avere asservito tale vocazione a esigenze politiche altrui, ammettendo peraltro di essersi lasciato indurre a ciò, oltre che dall'avidità di bottino, da un ingenuo desiderio di grandezza.
Morì nello stabilimento penale di Portoferraio (prov. di Livorno) il 18 giugno 1905.