Nel corso dell’Età moderna, anche in Basilicata notevole, se non quasi “monocratica”, fu la rilevanza assunta dalla Chiesa, che assunse una posizione tutt’altro che statica nei confronti della società, adoperandosi per stabilire rapporti solidi con il mondo laico, conformando la propria azione in vita di un reale, incisivo, inserimento all’interno dei quadri dirigenti locali . In effetti, la Chiesa seppe garantirsi una rilevante base patrimoniale, tanto più in coincidenza con il difficile periodo attraversato negli anni della Controriforma, soprattutto perché essa gestiva gran parte dell’agro lucano.
Se, in effetti, l’«azienda clerale» ricettizia fu il perno socio-economico della provincia, anche in Basilicata gli ordini religiosi ebbero notevole rilevanza nella “riconquista” delle anime e, in realtà, la tenuta del clero sul territorio lucano fu garantita proprio da monasteri e grancie, tra le quali spiccano quelle dei Benedettini, che vi lasciarono una traccia profonda.
Notevoli sono, infatti, le testimonianze e i dati.
La presenza di monasteri, italogreci e benedettini, è attestata in Basilicata a partire dall'VIII secolo con la diffusione di monasteri, chiese, grancie, prova evidente del contributo della regione ad una forte identità culturale del Mezzogiorno. L'insediamento e la diffusione capillare di quelle comunità monastiche, inoltre, testimonia non solo la forte religiosità delle popolazioni lucane, ma anche la capacità di quegli ordini di organizzare il territorio, determinarne l'assetto degli abitati e dare un apporto significativo allo sviluppo dell'agricoltura, del commercio e dell'industria del territorio. Gran parte degli edifici e delle fabbriche monastiche sono ormai ridotti a ruderi, e di alcuni non vi è più traccia, distrutti da eventi naturali o dall'azione dell'uomo, anche se le fabbriche più importanti, come la Santissima Trinità di Venosa e Monticchio, hanno conservato parti significative degli edifici.
Il monastero della SS. Trinità di Venosa sarebbe stato istituito nel 942, per iniziativa di Gisulfo I principe di Salerno, su richiesta di un suo parente, il nobile Indulfo, che ivi successivamente divenne monaco . La maggioranza degli studiosi ritiene che a questo testo, certamente frutto di una falsificazione o di una interpolazione nella forma in cui ci è pervenuto, debba essere ugualmente riconosciuta una sostanziale attendibilità, soprattutto in base all’analisi architettonica, che ha rivelato e rivela nel monumento una complessa stratificazione strutturale, con riconoscibili frasi prenormanne. Tuttavia le scoperte più recenti, come pure il reimpiego nella costruzione di parti murarie impostate ad una quota che sembra essere pertinente a strutturare tardoantiche, inducono a ritenere che l’impianto chiesastico sia precedente al X secolo e danno credito alla tradizione, raccolta anche dell’Ughelli , secondo la quale la chiesa della Ss. Trinità sarebbe stata, per un certo periodo, la cattedrale cittadina, rimettendo in discussione la fondazione abbaziale del 942. Comunque, sia stata preesistente soltanto la chiesa o la stessa comunità benedettina, l’interessamento del normanno Drogone verso quest’ultima, testimoniato dalla bolla di Niccolò II del 25 agosto 1059, non sembra limitato all’intervento di carattere edilizio in essa esplicitamente ricordato, monasterium Sancte Trinitatis de veteri civitate Venusia labore extructum a Dregone comite, restaurari ceptum per te [abate Ingilberto], ma assume il carattere di una vera e propria fondazione de novo, in quanto la conferma pontificale non solo definisce le grandi linee della disciplina religiosa e la condizione del monastero, ma stabilisce anche la misura stessa dei censi dovuti alla Santa Sede4.
Sono notevoli gli edifici conservatisi dall’abbazia medioevale, cioè la «chiesa anteriore», la «foresteria» e la grandiosa «chiesa incompiuta» . Un accurato bilancio di queste ricerche storico-artistiche e delle loro proposte, spesso contrastanti, per la datazione delle fasi costruttive è stato tracciato da Corrado Bozzoni che attribuiva la «chiesa anteriore» all’epoca dei primi Normanni (1043/6-1085), indicando come inizio della costruzione della grande «chiesa incompiuta» il decennio tra il 1170 e il 1180, quando l’abbazia venosina, sotto l’abate Egidio, avrebbe raggiunto «nuovamente un’eccezionale potenza e prestigio» . Questa tesi è, però, stata contrastata recentemente, quando si è ipotizzato che la «chiesa incompiuta» fosse stata progettata e iniziata già sotto l’abate normanno Berengario, cioè nella seconda metà del secolo XI o al più tardi all’inizio del secolo successivo, cioè all’epoca di Ruggero Borsa (1085-1111).
Anche per quanto riguarda la cosiddetta «foresteria», le cui origini erano state attribuite all’epoca longobarda , recentemente sono state avanzate nuove proposte di interpretazione: sulla base della funzione della S.S. Trinità come chiesa sepolcrale dei primi Altavilla , la «foresteria» dovrebbe risalire, nella sua forma odierna, a due fasi costruttive. Nella prima fase, attribuibile all’epoca di Roberto il Guiscardo (1085), sarebbe stato costruito il nucleo dell’edificio destinato a ospitare gli Altavilla quando si recavano in visita all’abbazia. Nella seconda fase costruttiva, attribuita al XIII secolo, l’edificio sarebbe stato modificato e allargato, e solo allora esso avrebbe assunto la funzione di foresteria, nel senso di «ospizio» per i pellegrini. Le recenti indagini archeologiche hanno messo in evidenza come la chiesa (anteriore) della SS. Trinità di Venosa, poi trasferita in altro luogo (cioè in corrispondenza dell’odierno castello allora non ancora esistente), fu oggetto di numerosi restauri promossi da Drogone di Altavilla alla metà dell’XI secolo .
Il primo importante contributo descrittivo e critico sull’abbazia della Trinità deve essere indicato nell’opera di Heinrich W. Schulz, che accanto ad una sintesi delle vicende storiche del monumento, derivate dalla letteratura precedente e dalle fonti epigrafiche, pubblicò per primo una planimetria del complesso (tuttavia incompleta e imprecisa) ed alcuni notevoli disegni di capitelli e di uno dei portali. Secondo lo studioso tedesco, le residue strutture della chiesa incompiuta, cioè l’impianto planimetrico con deambulatorio e cappelle radiali, di chiara derivazione francese, dovevano essere ritenute il frutto di una ricostruzione progettata alla fine del XIII secolo; mentre la chiesa anteriore rappresenterebbe ancora l’edificio innalzato dai primi normanni.
La storia del monastero di san Michele Arcangelo di Montescaglioso ha inizio, almeno per quella parte che trova riscontro in documenti e fonti verificabili, intorno all’anno Mille, in quanto le leggende locali, riferite anche dallo storico del monastero, l’abate Tansi , vogliono la comunità
monastica esistente già nel 534 sotto la regola basiliana. Il Tansi, nel riferire la leggenda, scrive che in quell’anno Placido, uno dei discepoli di san Benedetto, nel corso del suo viaggio verso Messina si sarebbe fermato a Montescaglioso ospite dei monaci che, impressionati dai miracoli del santo, chiesero ed ottennero di poter vivere secondo la regola di Benedetto.
L’elemento significativo della vicenda narrata, che non trova alcun riscontro documentario, non è tanto il preesistente a quello benedettino, in un contesto territoriale dove, antecedentemente alla conquista normanna ed anche oltre, sono numerosi sia i monasteri basiliani, sia le comunità e i vescovadi che conservano il rito greco.
Giuseppe Gattini, erudito materano, parlando della città di Montescaglioso e delle sue remote origini, asserisce che l’abbazia assurse ad una certa importanza anche prima del Mille, sia per la posizione, sia per il numero degli abitanti, sia «per celebrato monastero, che pria d’aver la regola di S. Benedetto era probabilmente un cenobio basiliano» . L’ipotesi, quindi della preesistenza di un insediamento basiliano a Montescaglioso, pur non trovando verifica nelle fonti, non va del tutto trascurata soprattutto in base a considerazioni suggerite dal contesto territoriale e culturale, fino a tutta la metà dell’XI secolo, fortemente permeato da influssi bizantini. Ma a segnare la vera nascita della locale comunità benedettina a Montescaglioso sarebbe stato l’ingente patrimonio formatosi a seguito delle donazioni dei Normanni che, nel disegno di costruzione di un loro Stato e nel tentativo di integrazione con le popolazioni locali, oltre a fondare nuove comunità religiose (nel 1097 eressero l’altra grande abbazia del Metapontino, S. Maria del Casale a Pisticci ) avrebbero dotato le preesistenti di cospicue rendite e vasti possedimenti. L’atteggiamento dei Normanni sarebbe stato rispettoso verso le singole realtà locali, ormai consolidate e l’appoggio alla cattedra romana consigliava un concreto impegno nei confronti dei grandi monasteri latini del Vulture, di Banzi, Matera e Montescaglioso.
I documenti pubblicati dall’abate Tansi nel 1746 ricostruiscono, per il monastero di Montescaglioso, il susseguirsi delle donazioni che ebbero inizio nel 1065, con la cappella urbana di S. Maria in Platea, oggi Madonna delle Grazie, proseguendo con il casale di S. Maria del Cornu sul Basento nel 1078. Il patrimonio dell’abbazia si accrebbee anche con donazioni da parte di alcuni cittadini di Montescaglioso, sicché il monastero si trovava al centro di un vasto e articolato sistema territoriale che organizzava e disegnava tutta l’area metapontina con una rete di casali e insediamenti mantenutasi intatta sino ai primi decenni del XIX secolo, quando solo le leggi sull’abolizione della feudalità riuscirono a smantellare un complesso patrimoniale valutato, da una Relatione del 1650, pari a circa diecimila
ettari.
Gli abati Stefano, Simeone, Crescenzo, e Guarino che all’inizio si succedettero nel governo del monastero, si posero essenzialmente due obiettivi: ampliare le fabbriche del complesso e consolidare il cenobio nel possesso dei propri feudi e casali continuamente minacciati dalle mire dei potenti confinanti. Si registrarono, quindi, numerosi diplomi e privilegi che meglio definivano i confini e la natura dei possedimenti benedettini o che confermavano a questi la proprietà dei feudi e casali concessi dai conti normanni : inoltre, l’abbazia fu inclusa nel perimetro murario edificato dai Normanni sulla sommità della collina di Montescaglioso .
La parabola discendente del monachesimo benedettino tra Tre e Quattrocento vide le nuove congregazioni degli Olivetani, Celestini e Silvestrini protagoniste di fermenti rinnovatori e riformatori che spinsero verso una vita più distaccata dal mondo, tentando un ritorno alla Regola. Il monastero di Montescaglioso, pur riuscendo a sopravvivere, si dibatté tra infinite difficoltà, con una lunga serie di contenziosi riguardanti le usurpazioni nei feudi e la definizione dei confini di San Salvatore a Torre a Mare, che indussero gli abati a concedere, per amor di pace, i casali e le relative pertinenze in affitto ai feudatari dei centri vicini o ai potenti confinanti.
Nello studio che il Circolo “La Scaletta” ha effettuato sulle grandi masserie ubicate nel territorio rientrante approssimativamente nei confini amministrativi della provincia di Matera sono emersi, inoltre, alcuni complessi agricoli legati direttamente all’insediamento monastico benedettino; particolarmente interessata da questa presenza fu l’area bradanica e buona parte del Metapontino che, comunque, prima dell’arrivo dei Normanni era sotto l’influenza del monastero basiliano di Sant’Elia a Carbone, che comprendeva fra i suoi possedimenti il tempio di Sant’Andrea in Rotondella, la chiesa di San Filippo in Teana, la chiesa di San Lorenzo a Craco, di Santa Marina e Santa Barbara in Montalbano, di San Giacomo in Sarconi, di san Simeone in Bari, di San Bartolomeo in Taranto e vaste estensioni di terreni con le colonie agricole di Policoro, Ischinzana e San Basilio.
Il 1087 fu una data fondamentale ai fini di studio dell’area e degli insediamenti metapontini ed è una data certa documentata da un atto di donazione conservato negli archivi storici e da un graffito, tuttora leggibile, sul prospetto principale della chiesa di Santa Maria del Casale di Pisticci. Il prestigio e la fama di questo insediamento benedettino ben presto si diffusero oltre i confini del feudo normanno e nel 1133 il re Ruggero II, nella città di Gravina, donò al monastero, nella persona dell’abate pro tempore, la chiesa con l’annesso feudo di San Basilio.
Fu questo un atto importante ai fini della conoscenza della storia di San Basilio, che confermò l’esistenza di un feudo costituito dai Normanni su vecchio cenobio basiliano ed acquisito, per donazione, dai Benedettini che vi costituirono una grancia dipendente dal monastero di Santa Maria del Casale. Un feudo che, unitamente al privilegio concesso all’abate don Pietro da Roberto, figlio del re Ruggero II, fu costituito da possesso perpetuo del dominio «su alcuni uomini di Pisticci e sui loro figli e sui loro beni», e che estese l’autorità e l’influenza religiosa e politico-economica della comunità benedettina da Pisticci fino alla marina ionica .
La grancia di San Basilio non fu esente da contestazioni ed usurpazioni se fu necessario, nel 1222, una conferma della donazione da parte dell’imperatore Federico II. Dall’esame dei documenti emerge che, anche dopo tale imperiale conferma, i padri benedettini di Santa Maria del Casale non ebbero vita facile nella conservazione del feudo di San Basilio che, ad esempio, usurpato da Bonifacio dell’Aquillara, li costrinse, nel 1226, a ricorrere in giudizio presso il giustiziere Sperone che aveva corte, all’epoca, nella città di Melfi. Una vertenza giudiziaria più lunga e complessa fu quella che vide contrapposti i Padri di Santa Maria del
Casale contro i basiliani del cenobio di Sant’Elia in Carbone e che, titolari del feudo della Scanzana del Metapontino, confinante con San Basilio, contestavano il possesso di alcuni territori inglobati nel feudo benedettino.
Una vertenza che si svolse con alterne vicende per oltre un secolo e che ebbe termine con un accordo definitivo nel 1306.
In circa quattrocento anni di presenza benedettina San Basilio divenne, con il lavoro costante, paziente e competente della Comunità un’oasi con oliveti, vigneti ed alberi di ogni specie di frutta. Una grancia agricola residenziale di primissimo piano che assunse anche un’importanza notevolissima come struttura difensiva contro le scorrerie corsare e le bande brigantesche e che nel tempo, pur cambiando di proprietà, conservò una sua tipica efficienza giungendo fino con la stessa funzione, anche se con la nuova denominazione di masseria-castello.
Nel febbraio del 1451, su disposizione del papa Nicolò V, il monastero di Santa Maria del Casale di Pisticci passò sotto la giurisdizione dei Padri certosini facenti capo alla certosa di San Lorenzo in Padula e conseguentemente fu incorporato dalla stessa comunità anche il feudo di San Basilio, che, trasformatosi in una grande abbazia certosina, subì nelle strutture edificatorie modificazioni interne che lasciarono, comunque, relativamente intatta la struttura perimetrale esterna.
Questo “dominio” durò fino alla fine del XVIII secolo e segnò il suo declino con le leggi murattiane contro la feudalità . Ma mentre il monastero di Santa Maria del Casale di Pisticci, completamente abbandonato dopo il 1830, cadde in rovina la grancia di San Basilio, anche se in tono dimesso, continuò ad esistere, in virtù di una forte integrazione con il territorio circostante. Infatti, come centro di un vasto feudo agricolo San Basilio rappresentava, nell’economia benedettina, la grancia, ma accanto a questa funzione aveva anche il compito di struttura difensiva in quanto, specialmente nel XVI secolo, divenne parte integrante di un sistema di avvistamento e difesa della costa ionica contro le scorrerie barbaresche .
L’originario impianto benedettino, come detto, pur con modifiche ed ampliamenti avvenuti nel corso dei secoli, è tuttora perfettamente leggibile, sicché si può individuare l’originario perimetro con il chiostro centrale sul quale si affacciavano i locali adibiti a refettorio, cucina, a dormitorio, unitamente alla biblioteca, all’archivio, alla sala capitolare e la chiesa. Proprio il chiostro, l’attuale corte interna della masseria-castello, era il perno centrale e determinante dell’organismo distributivo intorno al quale erano ubicati gli ambienti essenziali alla vita religiosa ed agricola della comunità. Ad un attento esame può ancora essere individuata la disposizione dei vani interni, vasti, rispondenti alla concezione benedettina nella quale sia le attività che il riposo notturno erano collettive; una concezione che richiedeva ambienti non molto numerosi, ma vasti abbastanza per soddisfare le esigenze della comunità.
Nel 1451, con il già citato passaggio di San Basilio dai Padri benedettini ai Padri certosini, si ebbe una modifica della struttura planimetrica degli edifici, non tanto nell’esterno, quanto nella distribuzione dei vani interni.
La regola di clausura che organizzava la vita quotidiana del padre certosino, infatti, richiedeva la suddivisione degli spazi in una serie di comparti isolata e distinti ognuno dei qual era destinato ad accogliere un “fratello”. Queste celle erano qualcosa di più della semplice cella per il riposo e la preghiera, come fissato nella tipologia del convento, in quanto il certosino non usciva dalla spazio a lui assegnato se non pochissime volte all’anno, durante le riunioni che avvenivano nel refettorio comune. Ciò comportava la creazione di una «cella abitativa» con più ambienti per soddisfare le esigenze della vita religiosa e di quella quotidiana.
Se la concezione unitaria benedettina è riscontrabile tuttora nella struttura edificatoria della masseria-castello, il tipo certosino formato da unità minori autosufficienti e difficilmente rilevabile probabilmente, perché sotto la giurisdizione di questo ultimo Ordine monastico si accentuò la funzione di San Basilio come grancia, con un elemento agricolo di gran lunga preminente su quello residenziale monastico. Quattro edifici rettangolari racchiudenti una corte interna formano la struttura originaria della masseria; sull’angolo sud-ovest, all’interno, si erge la torre quadrata normanna preesistente al complesso monastico. Probabilmente nella prima metà del XV secolo fu aggiunta al complesso una costruzione rettangolare, come un braccio fuoriuscente dalla cinta originaria, un edificio, quest’ultimo, fortificato successivamente , tra fine XV e prima metà del XVI secolo, con l’inserimento di una torre cilindrica casamattata nell’angolo est. Probabilmente nello stesso periodo furono inseriti negli angoli sud ed ovest, del perimetro murario, delle torrette casamattate poste in isporto e poggianti su grossi mensoloni.
Sono, infine, del XVIII secolo la chiesa esterna inserita nell’angolo formato dall’edificio aggiunto al perimetro originale e la facciata d’ingresso del complesso . Tre sistemi in pietra sovrastanti il portale d’ingresso raffigurano il San Michele Arcangelo dei benedettini, la «graticola» di San Lorenzo della Certosa di Padula ed il disegno araldico della famiglia Berlingieri; stemmi che racchiudono i tre passaggi storici del complesso agricolo-residenziale di San Basilio.
La torre quadrata, immagliata nel perimetro interno della masseria, risale quasi certamente al periodo normanno, tra la fine dell’XI e la prima metà del XII secolo, pur se la sua origine non è suffragata da alcun documento: tuttavia, tenendo presente la tipologia costruttiva ed architettonica della stessa ed essendo documentata la costituzione del feudo normanno di San Basilio, il tutto lascia presupporre la quasi certezza della datazione. Tipologicamente la torre presenta la parte inferiore con un alto basamento in pietra dura, lievemente scarpato, diviso dalla parte superiore, che si sviluppa ad asse verticale, da un toro marcapiano piatto formato da pietra calcarea. La pare superiore della torre è in mattoni di grosso formato in argilla cotta; il coronamento, privo di merlatura, poggiante su di una serie di beccatelli, è munito di saettiere e caditoie. L’asse della merlatura tradizionale, rimasta valida nelle opere fortificate fino al XIII secolo, lascia presumere un aggiornamento della corona terminale successivo alla diffusione delle nuove concezioni difensive importate dall’Oriente dopo le esperienze militari delle Crociate nel XII secolo. Una scala a chiocciola, in pietra, interna, collega il vano posto alla base della torre con la sommità; a vari livelli si aprono feritoie a strombatura interna e vani di servizio . Tre vasti ambienti sovrapposti dividono la torre in diversi piani; essi risultano pavimentati in cotto, presentano un ampio camino ed una finestra imbussolata in un arco tondeggiante.
L’ingresso esterno, ricavato a circa un terzo dell’altezza totale della torre, era munito di ponte levatoio, del quale si notano ancora le scanalature nel muro per l’alloggiamento delle due travi girevoli e che è sovrastato da una finestrella di guardia. Attualmente, comunque, l’entrata si presenta rimaneggiata ed al ponte levatoio è stato sostituito un ponte di muratura ad arco che collega stabilmente la torre con il fabbricato perimetrale interno alla masseria, mentre un ingresso è stato ricavato successivamente all’altezza di base della torre per accedervi dalla corte. La volta terminale della torre è terrazzata e si notano, fuoriuscenti, il terminale della scala protetta da una copertura esagonale, un arco campanario con campana e due grossi comignoli dei quali uno solo intatto. La simmetria dei mattoni sulle facciate esterne è interrotta, inoltre, da una serie di fori quadrangolari lasciati per il montaggio delle impalcature per la manutenzione della struttura .
La principale difesa della torre era affidata ai proiettili, che venivano accumulati sul piano più elevato e lasciati cadere dall’alto: proprio per realizzare questo proposito il parapetto di sommità si presenta sporgente e nel ballatoio a sbalzo sono ricavate le caditoie che permettevano ai proiettili di precipitare in aderenza al muro.
La torre si sviluppa per 18 metri di altezza dalla linea della corte alla corona con una larghezza di base di 11 metri; nove metri e mezzo è la larghezza nella parte superiore. Partendo dall’attuale ingresso i primi tre vani sovrapposti presentano la volta a botte ed il terzo a crociera .
Ormai distrutta è, inoltre, l'abbazia di Santa Maria dello Juso a Irsina, fondata nel secolo XI e annessa all'abbazia di Chaise de Dieu di Clermont Ferrand, in Francia, al quale facevano capo la cattedra vescovile della città e l'officiatura della cattedrale, di cui si conserva un campanile gotico, opera degli stessi monaci . Appartenne, invece, all'ordine benedettino pulsanense il monastero di San Pietro in Cellaria, a Calvello, sorto nella seconda metà del XII secolo, soppresso nel XVI secolo e poi concesso alla basilica di Santa Maria Maggiore a Roma , così come sono rimasti ormai solo i ruderi, in agro di Chiaromonte, del monastero e del campanile appartenuti all'abbazia di Santa Maria del Sagittario dove si insediarono, intorno al 1202, i monaci provenienti dall'abbazia di Casamari .