giovedì 26 settembre 2019

La Basilicata contemporanea. 31. Ninco Nanco, un efferato assassino

Figlio di Domenico Summa e Anna Coviello, Ninco Nanco (il cui soprannome apparteneva alla famiglia paterna), nacque in un ambiente familiare disagiato e con diversi problemi con la legge. Suo zio materno, il bandito Giuseppe Nicola Coviello, morì carbonizzato in una capanna di paglia dove si era nascosto per sfuggire alla polizia borbonica. Uno zio paterno, di nome Francescantonio, scontò dieci anni di reclusione per aver picchiato un gendarme borbonico e, uscito di galera, fuggì in Puglia dopo aver ucciso a pugnalate un uomo per una questione di gioco, lavorando come garzone alle dipendenze di un possidente di Cerignola. Tuttavia, si diede ben presto alla macchia avendo ucciso il massaro.
Suo padre, benché onesto, aveva problemi di alcolismo, mentre una zia e una delle sue sorelle erano dedite alla prostituzione. Ancora ragazzino, Giuseppe iniziò a lavorare come domestico presso un notabile, Giuseppe Gagliardi, e più tardi come guardiano di vigne. All'età di 18 anni, sposò una ragazza chiamata Caterina Ferrara, orfana di entrambi i genitori, dalla quale non ebbe figli. In età giovanile, fu spesso protagonista di liti furiose, in una delle quali ricevette un colpo di ascia alla testa che non gli fu fatale. Un giorno, venne pestato e pugnalato ad una gamba da alcune persone che lo costrinsero a tre mesi di guarigione. Giuseppe, anziché denunciare l'accaduto alla polizia, preferì la vendetta personale. Qualche mese dopo, uccise uno dei suoi aggressori a colpi di ascia.
L'omicidio gli costò dieci anni di carcere a Ponza, ma riuscì ad evadere nell'agosto 1860. Recatosi a Napoli, tentò di arruolarsi nell'esercito di Giuseppe Garibaldi per poter ricevere la grazia ma fu scartato. Tentò la stessa cosa sia presentandosi a Salerno da Nicola Mancusi, comandante della colonna insurrezionale di Avigliano, sia facendo domanda di arruolamento nella Guardia Nazionale ma entrambi gli esiti furono negativi. Costretto al brigantaggio, Ninco Nanco iniziò a vivere di rapine e furti, rifugiandosi nei boschi del Vulture.
Il 7 gennaio 1861, incontrò Carmine Crocco, del quale divenne uno dei più fidati subalterni. Il brigante aviglianese, assieme a Crocco, partecipò a numerosi saccheggi, conquistando prima tutto il Vulture, senza mai riuscire a prendere la sua città natia, Avigliano, poi gran parte della Basilicata, spingendosi fino all'avellinese e il foggiano. Si distinse soprattutto nella battaglia di Acinello, comandando la cavalleria dei briganti e dimostrando la sua padronanza in campo bellico. Non esitava ad aggredire le famiglie borghesi, ricorrendo al sequestro, all'omicidio e alla devastazione delle proprietà in caso di mancato sostegno.
L'attività di Ninco Nanco iniziò a perdere colpi l'8 febbraio 1864, quando la sua banda fu decimata presso Avigliano e 17 dei suoi uomini furono uccisi. Il 15 febbraio dello stesso anno, venne emessa una taglia di 15.000 lire sul brigante. Circa un mese dopo, il 13 marzo, Ninco Nanco e 2 dei suoi fedeli (uno di questi era suo fratello Francescantonio) furono braccati nei pressi di Lagopesole dalla Guardia Nazionale di Avigliano. Vennero giustiziati subito presso Frusci (frazione di Avigliano) e Ninco Nanco morì per mano del caporale della G.N., Nicola Coviello, con due colpi di cui uno dritto nella gola, per vendicarsi dell'assassinio del cognato compiuto dal brigante aviglianese il 27 giugno 1863.
FONTE: Wikipedia, voce "Ninco Nanco" (con tagli)

giovedì 19 settembre 2019

giovedì 12 settembre 2019

Il Mezzogiorno moderno. 6. Giustino Fortunato senior, ministro dei Borbone (G. Fortunato)

Il marchese Giustino Fortunato, nato in Rionero di Basilicata il 20 agosto del 1777, morì in Napoli il 22 agosto del 1862, vedovo di Raffaella Parisi ed orbo di discendenti in linea maschile. Laureato in giurisprudenza nella Università di Napoli e insegnante di matematica nel Collegio della Nunziatella, giudice di pace per decreto della Repubblica Napoletana e combattente nella guardia nazionale al Ponte della Maddalena, dal privato esercizio dell'avvocatura passò il 1806 a capo divisione del ministero della Giustizia e il 1808 a procurator regio della Gran Corte Criminale. 
Durante il governo di Gioacchino Murat, fu prima consiglier di Stato, poi direttor di Polizia a Firenze, infine intendente provinciale a Chieti.
Dopo il 1815 andò consigliere alla Gran Cortee de' Conti, di cui più tardi fu Procurator Generale. Il 1833 venne mandato a Palermo direttore del ministero di Stato presso il luogotenente in Sicilia pel dipartimento delle finanze. 
Il 1841 tornò in Napoli ministro segretario di Stato senza portafoglio, il 1847 fu nominato ministro delle Finanze, il 1848 pari del Regno, il 1849 (7 agosto) presidente del Consiglio de' Ministri e ministro degli Esteri, della cui doppia carica venne esonerato il 1852 (19 gennaio).
Fondatore il 1808 dell'Accademia Pontaniana, fu presidente della Reale Accademia delle Scienze per il triennio 1855-57. Di lui ho alcune memorie a stampa, quali: Su la responsabilità civile degli agenti del governo (1830), Sul tavoliere di Puglia (1831), e Sul trattato di Navigazione e di Commercio con l'Inghilterra (1839).
FONTE: G. Fortunato, Carteggio. 1865-1911, a cura di E. Gentile, Roma-Bari, Laterza, 1978, vol. 1, pp. 43-44. 

giovedì 5 settembre 2019

La Basilicata contemporanea. 30. Fatalità: da una lettera di Nitti a Fortunato

Noi che non crediamo alla vita futura, e che sappiamo che la vita e la morte non sono termini assoluti, ma fenomeni di natura identica, un avvicendarsi e un sostiuirsi scambievole, noi non dobbiamo, mio caro Giustino, credere alla fatalità.
Se io avessi creduto ad essa non avrei lottato e non lotterei contro difficoltà quotidiane, in ambiente dove nessuno sforzo di bontà e di amore porta i frutti che dovrebbe. Tante volte io pure son preso dallo scoraggiamento. Ma una voce interiore mi dice sempre: lotta e credi. Non ridete di ciò che io vi dico. Ma, ogni giorno che passa, io mi convinco che non vi è nulla che sia compiuto con amore, che non dia risultato. 
(...) Nulla si perde. Se vi accasciate sotto la fatalità, che cosa altro vi resta che uno sterile rimpianto? Voi non fate che rimpiangere ciò cui non potete più credere: rimpiangete la fede religiosa, cioè la illusione; rimpiangete il misticismo scemante, cioè la illusione che si dilegua. Voi non concepite la realità. Avete troppo nel vostro cuore e nella vostra anima il difetto della educazione antica. Non abbandonate la illusione cattolica che tutto si possa fare, se non per l'illusione pessimista, che nulla si possa fare.
(...) Nella vita dei popoli, come nella vita degli individui, non vi è nulla di più malefico della illusione pessimista. L'idealismo rivoluzionario, per quanto dannoso esso sia, vale cento volte di più.
Questa è la mia convinzione tenace, senza di cui non lotterei e non amerei: sento, che se non l'avessi la mia esistenza non avrebbe scopo e la mia opera sarebbe vana.
FONTE: G. Fortunato, Carteggio. 1867-1911. a cura di E. Gentile, Roma-Bari, Laterza, 1978, vol. 1, pp. 41-43 (con tagli) - Lettera di F. S. Nitti a Fortunato del 12/2/1896.

La cultura meridionale. 6. Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi (audiolibro)

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