Il volume nasce da una serie di raccolte di novelle di tipo descrittivo che l’autore scriveva per alcuni periodici lucani tra gli anni Ottanta e Novanta del XIX secolo. In un secondo momento li raccolse in un unico scritto, di grande interesse antropologico, dove trova spazio anche un’appendice storica sulla città di Potenza.
Diviso in dieci capitoli, l’opera tratta tutti gli aspetti, con usi, consuetudini, modi di pensare del contadino potentino, a partire dalla sua nascita fino alla morte, senza far mancare al lettore deliziosi regressi storici che raccontano come le abitudini siano mutate nel tempo, in corrispondenza con i cambiamenti politici che decretano talvolta la perdita di taluni usi.
Nel primo capitolo tratta i tre punti salienti della vita del popolo potentino: la nascita e il battesimo, il matrimonio e la morte. Nel trattare la nascita si parla inevitabilmente della donna incinta, o per meglio dire “prena”, che era socialmente investita da un’aura sacra: a lei l’intera comunità riservava dei riguardi. Si avevano particolari attenzioni nel non farle avvertire desideri collegati al cibo, in quanto il desiderio non appagato avrebbe potuto causare dei danni al nascituro: le cosiddette vulii (voglie), ovvero macchie sulla pelle o nei, che pare fossero da collegarsi ai desideri inesauditi della donna nello stato di gravidanza.
Se la donna affrontava l’ennesima gravidanza tutte le dolci attenzioni le venivano negate. Molte di loro, infatti dovevano continuare ad aiutare nella gestione della campagna e se si fossero rifiutate avrebbero subito l’ira del marito, con calci nei fianchi e qualche pugno nella schiena.
La nascita era un momento importantissimo, in base al sesso si stabiliva se essere lieti o meno dell’evento; infatti con la femmina nasce il duolo, con il maschio nasce l’augurio, soprattutto per i primi parti. Questo pregiudizio era in parte dovuto alla diceria che sin dalla sua nascita una bambina necessita di maggiori cure, arrecando mille fastidi alla famiglia.
Nei giorni successivi si pensava al battesimo, alla scelta del compare e della comare e alla pulizia della casa della puerpera. In questo giorno di festa si faceva sfoggio del corredo sposalizio, si preparava anche il neonato, che veniva fasciato nella migliore biancheria, chiamato mbascianna con qualche merlettino decorativo sulle maniche, con una cuffia piena di nastri, dette fettuccine, con qualche spilla e collana d’oro. Il battesimo si celebrava all’interno della chiesa, un posto distinto veniva dato ai compari che spesso si vedevano al fianco dei genitori naturali, in quanto ricoprivano un ruolo analogo, nella parentela spirituale. Finita le cerimonia, il compare donava qualche moneta nel sacchetto dell’acqua santa, per poi tornare a casa del battezzato, dove si ricevano le viste per i dovuti auguri. Qui si offrivano li cumpliment’, ovvero delle leccornie che variavano in base allo stato economico della famiglia: prima si offrivano ceci o fave arrostite o cotte accompagnate da brocche colme di vino, mentre verso l’inizio del XIX si mutò nell’offrire i mustacciuoli (paste secce) accompagnati dell’acquavite, divenuti sinonimo di agiatezza e di manifattura casereccia. Alla mancanza di dolciumi si suppliva con l’utilizzo dell’acquavite, col mosto cotto e con il miele.
Nell’infanzia il bambino veniva ricoperto di amuleti che doveva proteggerlo da una possibile iettatura o dal maluocchio, e quindi gli si facevano indossare abitini ripieni di immagini raffiguranti figure di santi, cornicielli, zanna di cinghiale incastonata in cerchietto di argento e qualsiasi altro amuleto ritenuto utile nell’intento. Tale superstizione sfociava anche nelle malattie: se al bambino fosse capitato quale malanno, si chiamava prima il prete o qualche donna esperta in arti magiche, che con qualche recitazione, orazione o lettura del vangelo di S. Giovanni avrebbe liberato il giovinetto da tutti i malanni.
L’educazione era spartana, così com’era sparato l’abbigliamento costituito da una camicia e un abito sano che copriva tutto il corpo, fungendo da giacchetto, da panciotto e da calzone; e le calzature erano pressoché inesistenti. Non c’era cambio di vestiario in base alle stagioni, rimaneva immutato senza badare se ci fosse la neve o se picchiasse il sole.
L’istruzione era scarsa e ristretta, le scuole pubbliche inesistenti e solo qualche prete fungeva da maestro e teneva scuola in casa, a volte poi veniva retribuito con qualche spicciolo alla mesata, altre con qualche gallina nelle feste sollenn o con quant’altro le povere famiglie riuscivano a donare per sdebitarsi. Come testo veniva utilizzato l’Abicidaria (abbecedario) e lu libr’ di li sett tromb (libro delle Sette Trombe). Saper leggere, riuscire a fare due “sgorbi” che ricordassero delle lettere era un vanto, ma l’esigenza di una adeguata istruzione non era sentita in quella vita che era scandita solo dalla generosità della terra. Si pensi che fino al 1860 la posta da Napoli era consegnata solo una volta a settimana, andandola a prendere il pedone Acierno da Auletta; nell’ufficio postale per tutta la provincia c’era solo un dipendente, il buonfantini che ne era Direttore e impiegato.
L’educazione altrettanto spartana; nelle scuole si era soliti prendere a schiaffi, pugni, frustate e così via l’alunno per impartire la giusta educazione. La più barbara delle correzioni era la cavadda, ovvero si faceva prendere l’alunno sulle spalle da uno più grande, mentre il maestro scaraventava colpi feroci di frusta sulle spalle e sulle natiche del ragazzo, che incurante delle urla sempre più forti del giovane, talvolta provocate dell’uscita del sangue, continuava fin quado voleva.