Ricercato dalla polizia, rimase latitante per alcuni mesi: arrestato nel 1850, fu condannato a 19 anni di carcere e per questo tradotto a Procida nel 1854, anche se poi la pena gli fu prima ridotta di 6 anni e poi commutata in «esilio perpetuo». Durante l’esilio fu a contatto con Luigi Settembrini e Silvio Spaventa, dai quali si allontanò dopo aver conosciuto a Londra Giuseppe Mazzini ed aver aderito al suo progetto politico.
Rientrato in Italia il 5 agosto 1860, sottoscrisse a Napoli il programma del Partito d’Azione e poi fu fra gli animatori della rivolta di Corleto. Il 18 di quel mese guidò a Potenza gli insorti e contribuì alla proclamazione del Governo Prodittatoriale dal quale, però, rimase escluso per le sue posizioni radicali, ottenendo, come parziale contropartita, la nomina a Capo di Stato Maggiore della Brigata Lucana con cui raggiunse le truppe garibaldine sul Volturno, partecipando alla presa di Aversa.
Nei primissimi anni dell’Unità d’Italia fu ancora attivo in Basilicata sia come militare (venne nominato Maggiore della Guardia Nazionale e partecipò alla repressione dei moti del Melfese dell’aprile 1861), sia come politico (fu consigliere comunale di Potenza e componente del Consiglio Sanitario di Basilicata). In questa seconda veste, però, le sue posizioni radicali lo tennero lontano da ruoli di particolare prestigio istituzionale ed infatti il governo sabaudo non gli riconobbe il titolo di presidente della Gran Corte Criminale di Basilicata perché «sospetto mazziniano e repubblicano».
Arrestato nuovamente dopo le vicende dell’Aspromonte, fu amnistiato nel 1863 e tentò la carriera politica nel Parlamento Nazionale, ma uscì sconfitto nel duello elettorale con il moderato Giuseppe d’Errico. In seguito si dedicò alla carriera giornalistica dirigendo “Il Risveglio” e “La Nuova Lucania”, settimanale radicale che egli stesso fondò nel 1874. Morì il 4 settembre 1884 per i postimi delle ferite causate da una caduta avvenuta proprio in occasione della celebrazione dell’insurrezione lucana del 18 agosto.