giovedì 27 dicembre 2018

Il Mezzogiorno moderno. 2. L'Archivio borbonico dei Bianchi della Giustizia

Sin dalle origini, i confratelli della Compagnia dei Bianchi della Giustizia si erano assunti il triste compito di confortare i condannati a morte, disporne funerali e messe di suffragio ed assistere le famiglie. Nel corso dei secoli i Bianchi provvidero a rafforzare le proprie attività istituzionali ed a consolidare la vita interna del sodalizio, fino al 1862, quando gli eventi socio-politici ponevano, di fatto, fine alla sua attività di tipo "socio-spirituale" nei confronti di omicidi, ladri e colpevoli di lesa maestà. 
Un notevole impulso all'attività dei Bianchi si ebbe nel periodo borbonico (1734-1860), come emerge dalla seguente tabella:
Periodo
Condannati
Carlo di Borbone
(1734-1759)
148
Ferdinando IV di Borbone
(1759-1799)
72
Repubblica Napoletana
(21/1-13/6/1799)
28
Restaurazione borbonica
(1799-1805)
121
Decennio napoleonico
Giuseppe Bonaparte
(1806-1808)
Gioacchino Murat
(1808-1815)

108

82
Ferdinando I delle Due Sicilie
(1815-1825)
61
Francesco I delle Due Sicilie
(1825-1830)
17
Ferdinando II delle Due Sicilie
(1830-1859)
24
Francesco II delle Due Sicilie
(1859-1860)
0

domenica 23 dicembre 2018

La Basilicata contemporanea. 28b. Il generale Giuseppe Pennella: le operazioni dell'VIII Armata (Antonio Cecere)

Con lo stesso identico animo dell'esordio, Giuseppe Pennella passò al comando della 35ª Divisione in Macedonia, poi al XI Corpo d'armata, successivamente alla 4ª Armata, all’8ª Armata ed infine al XII Corpo d'armata. Questo fu Pennella, un uomo dalle capacità tattiche fuori dal comune, candidato al comando dell'intero esercito dopo Cadorna. Ma, come in tutte le cose, c'è chi alza la pietra e chi si ruba il gambero. 
C’è un esempio che ben si adatta a tutte le battaglie della prima guerra mondiale, specie quelle sul fronte orientale. È quello della cosiddetta “onda del mare”, sarebbe in parole povere l’allungamento della logistica e quindi dei rifornimenti rispetto ad un punto in maniera esagerata a svantaggio delle truppe in espansione stessa. Vale a dire quello che vi mostro ora in mappa del caso specifico che vorrei trattare questa sera con voi: la Battaglia del Solstizio e più specificatamente del Montello. Come possiamo vedere dopo Caporetto la linea del fronte italiano arretra sul Piave a vantaggio/svantaggio di quella austriaca. La logistica austriaca avrà seria difficoltà a portare viveri, vettovaglie e tutto ciò di cui ha bisogno un esercito in battaglia diuturnamente. Al contrario le retrovie per gli italiani sono molto agevoli. 
C’è un punto in cui la canzone della Leggenda del Piave è particolarmente emblematico ed è il seguente: 

Si vide il Piave rigonfiar le sponde, e come i fanti combattevan l’onde …

C'è da interrogarsi su questo binomio: Piave ingrossato quindi in piena e fanti che combattevano le stesse onde. Chiaramente è qualcosa di metaforico.  Partiamo dalla premessa. Tale canzone musicata da Ermete Giovanni Gaeta fu composta precisamente dopo la vittoria di Giuseppe Pennella sul Montello al comando dell’VIII armata. Tale vittoria rappresenterebbe il contraltare di Caporetto ed a sua volta il termine ante quem a Vittorio Veneto. Ma per ritornare al mio interrogativo … davvero è da ascrivere alla piena del Piave la vittoria ed il respingimento degli austriaci al di là degli argini del Sacro Fiume? In verità no. È da ascrivere totalmente all’VIII armata comandata dal rionerese Peppino Pennella. Si andò diffondendo infatti all’indomani della pesante sconfitta inflitta alle truppe austro – ungariche durante la battaglia del Solstizio da parte dell’esercito regio italiano la leggenda del rigonfiamento del fiume per minimizzare il più possibile le capacità tattiche di offensiva reali delle nostre truppe. Così mi sono andato a cercare i dati idrometrici del fiume nei giorni della battaglia rilevati dalla stazione di Nervesa, praticamente sotto il Montello, dove operava Pennella.
Emerge visibilmente che non fu l’ingrossarsi del Piave a determinare la vittoria. Sono state certamente le capacità fuori dal comune di Pennella e dei suoi immediati sottoposti a mettere in rotta l’esercito austriaco. Deve essere sottolineato che non tutti avevano intuito che proprio al Montello gli austriaci avrebbero tentato di sfondare la fronte italiana. 
Fortunatamente non tra questi vi era Pennella, che ben sapeva che avrebbero concentrato le forze il quel punto. In questo caso le trincee vennero erette a regola d’arte. Durante la battaglia fu quindi strategico il coordinamento della fanteria del XXVII corpo d’armata del comandante Di Giorgio, del VIII corpo d’armata del comandante Gandolfo Asclepia, della riserva d’armata del colonnello Giacchi con l’artiglieria del comandante Giuliano Ricci. Tale connubio venne immortalato perfino sui giornali stranieri dell’epoca e l’esempio più famoso è costituito dal francese «Petit Journal». 
Ma c’è un aneddoto che merita di essere raccontato. 
Supporto all’artiglieria del comandante Ricci lo diede anche “l’aviazione” o meglio il prototipo di aviazione dell’epoca considerando che gli aerei erano stati inventati meno di quindi anni prima. Un eroe perì proprio in quella circostanza: Francesco Baracca. Il mitico aviatore ed asso della aviazione italiana con la carlinga del suo aereo decorata con il cavallino rampante (simbolo del 2º Reggimento cavalleria "Piemonte Reale" dal quale egli stesso proveniva) destinato ad essere mitizzato, fu colpito da una scarica di mitragliatrice austriaca mentre era in volo esattamente sul Montello il 19 giugno 1918. Dopo la sua scomparsa, il simbolo fu donato dalla famiglia Baracca ad Enzo Ferrari che lo scelse, consegnandolo alla gloria, per la sua casa automobilistica di Maranello.    
Ma, per ritornare a noi… Cadorna viene rimosso dopo Caporetto quasi alla fine della guerra, Pennella stravince sul Montello ed i meriti sono del geloso Diaz che, non appena termina la battaglia del Solstizio, assegna a Pennella il comando di un corpo d'armata, il XII, ben al di sotto dell'VIII armata da cui proveniva. Evidentemente c'è  qualche cosa che non quadra. Invidia, gelosia, astio? Non lo sapremo mai. Quel che sappiamo è che il migliore generale dell'epoca sia per tattica che per rigore militare, amato alla follia dalle sue truppe, venne di colpo silurato e progressivamente allontanato dalla carriera attiva. Ma sappiamo anche altro. Facciamo per un attimo un passo indietro nel tempo. Soltanto di qualche mese. Torniamo alla 12esima battaglia dell’Isonzo meglio conosciuta come Caporetto. Tutti sappiamo che Caporetto fu considerata, ed è tutt’oggi, sinonimo di sconfitta disastrosa. Perché? Lo storico dell’esercito italiano il colonnello Gatti scrisse nel diario all’indomani della sconfitta che Caporetto «è un sogno e non ci posso credere». Personalmente non condivido il messaggio dal momento che 
● se invece di Caporetto lo chiamiamo Soissons e se invece di Piave diciamo Marne e se invece di 1918 mettiamo 1914 otteniamo esattamente la stessa identica cosa con la differenza che né i francesi e né dopo i tedeschi, in altre occasioni, considerarono quelle avanzate e quel retrocedere di centinaia di km come delle sconfitte epocali … gli italiani lo fecero, perché? Perché l’esercito italiano è arrivato in guerra, a mio parere, con un complesso di inferiorità pazzesco che sarebbe svanito soltanto proprio grazie a Caporetto. Il fondo era stato toccato. Così la paura degli italiani cadde e si arrivò alla vittoria nel Solstizio e poi a Vittorio Veneto; 
● che basiamo, sbagliando, tale idea, sul cinema o sulla letteratura. 
Addio alle armi di Hemingway ad esempio è scritto da uno che aveva come totale esperienza sul fronte italiano 1 mese come ambulanziere diciannovenne sul fronte del Piave ferito alle gambe da un mortaio austriaco mentre stava portando della cioccolata ai reparti di prima linea. È questa l’esperienza militare di Hemingway che prese una medaglia d’argento al valore militare soltanto perché  bisognava far vedere in quel preciso istante che c’erano gli americani che combattevano al nostro fianco. Per inciso le uniche truppe americane combattenti sul fronte italiano ammontavano ad un reggimento. Quindi potete immaginare. In Addio alle armi descrive la ritirata di Caporetto come il caos più totale. In verità il caos riguardò soltanto la seconda armata. Dico io, secondo voi un esercito intero che si ritira nel caos, dopo quindici giorni è in grado di ricomporsi totalmente sul Piave e sconfiggere dopo pochi mesi un esercito vittorioso come quello austriaco che era arrivato sul Fiume Sacro con il morale al massimo? Evidentemente no!  
Tuttavia la sconfitta di Caporetto provocò immediatamente la sostituzione del generale Cadorna con Armando Diaz ed un nuovo assestamento delle truppe sul fronte del Piave dove, come già abbiamo avuto modo di vedere, gli italiani vinsero alla grande. Quando per la prima volta venni a sapere della sostituzione con degradazione del generale Pennella dopo la battaglia del Solstizio mi interrogai sul perché di tale gesto. Ipotizzai ci potesse essere un collegamento con la battaglia di Caporetto ed iniziai alcune ricerche. 
A Caporetto l’armata italiana che le prese brutalmente dagli austriaci e che poi si diede alla fuga fu la seconda. Questa armata è ricordata dagli storici come quella che sempre fu più sbilanciata delle altre sull’attacco… dei fanatici, degli “incoscienti spregiudicati” disse qualcuno che poco si preoccupavano della retroguardia e delle riserve. Anche anni dopo durante il fascismo continuò, tale armata, a mostrare questa tendenza. A confermare questa tesi sarà il suo simbolo con l’aquila fascista protesa in avanti, la cavalleria all’assalto ecc. Il comandante in capo di questa armata era il tenente generale Luigi Capello. Un personaggio particolare, dal momento che ogni qual volta Cadorna dava un ordine lui faceva esattamente l’opposto. Ma con lui chi c’era? In prima linea vi erano due signori che, successivamente, si ricopriranno di gloria. Non di certo per i meriti (?) di Caporetto. Al comando del XXVII corpo d’armata il tenente generale Pietro Badoglio ed al comando del XXIV corpo d’armata il tenente generale Enrico Caviglia. Questi due tizi si rivelarono in quella occasione dei perfetti incapaci. C’è da dire, comunque, che se per Badoglio la battaglia vera e propria non era cosa sua, in altre occasioni successive rivelerà la sua indole da ottimo riorganizzatore strategico e logistico (penso alla riorganizzazione sullo stesso Piave). Dopo Caporetto quel che resta della II armata dove era confluito? Esattamente nell’VIII comandata dal gen. Pennella che operò, in questo caso, un riordino da manuale con estremo rigore, rendendo quell’armata una vera e propria corazzata. Facile è ora immaginare il perché della punizione inflitta a Peppino Pennella da parte di Diaz all’indomani della epocale vittoria sul Solstizio. Badoglio fece pressioni sul Capo di Stato Maggiore, probabilmente perché invidioso delle capacità tattiche e militari del rionerese, affinché lo rimuovesse dall’incarico. Ed una volta ottenuto ciò? Il sostituto di Pennella fu niente di meno che… Caviglia! Il collega di Badoglio nella disfatta di Caporetto. Tanti indizi fanno una prova. A conferma della non totale affidabilità che riponeva Diaz nel duo Badoglio – Caviglia sta il fatto che al comando dell’VIII armata il Generalissimo Diaz affiancò a Caviglia un altro generale, l’inglese Cavan. Insomma un sol uomo non faceva Pennella, ce ne vollero ben tre. Ma la strada verso la vittoria il Nostro Peppino l’aveva già spianata.
Per ultimo, ma non per importanza va sottolineato un appunto al quale non si è quasi mai fatto accenno. Ovvero della presenza nella battaglia del Solstizio di un altro rionerese che merita assolutamente di essere citato. Parliamo dell’Ingegnere Giuseppe Catenacci che tra le fila del genio  militare (fu poi nominato maggiore) combatté proprio sul Montello e ricevette il 23 giugno 1968, in occasione delle celebrazioni per i 50 anni dalla vittoria dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale, per il significativo apporto dato alla Patria, la cittadinanza onoraria da parte della cittadina di Giavera del Montello. L’Ingegnere perdette in guerra, sul San Gabriele nel 1917, il suo amato fratello Michele, tenente dell’esercito e medaglia d’argento al valor militare. 

domenica 16 dicembre 2018

La Basilicata contemporanea. 28a. Il generale Giuseppe Pennella: l'esordio bellico (Antonio Cecere)

No, disse il Piave! No, dissero i fanti! Mai più il nemico faccia un passo avanti!

Non sarebbe esistita la vittoria italiana nella prima guerra mondiale. Non sarebbe esistita la canzone del Piave. Non sarebbe esistita l'Italia di oggi. Non saremmo stati davvero italiani. Non sarebbe stato nulla di tutto questo se in quel giugno di 100 anni fa un rionerese non avesse sbaragliato gli austriaci e tirato su il morale, ormai sotto i tacchi delle scarpe, dopo Caporetto, dell'intero esercito italiano. Saremmo arrivati senza Pennella al 4 novembre? No! Sarebbe finita. Per sempre. Con l'Austria che estendeva i suoi confini fino al lago di Garda, Verona inclusa. Forse anche Milano. 
Era l'8 agosto del 1864 quando Giuseppe Pennella nacque nell'appena nata, a sua volta, Rionero in Vulture. Non sembra possibile ma Pennella e Rionero in Vulture sono nati lo stesso giorno. In quell' 8 agosto 1864 mentre Antonio Pennella, farmacista di Rionero, registrava la nascita del figlio Giuseppe presso l'anagrafe comunale, la cittadina fortunatiana che da tempo immemore si chiamava soltanto Rionero, implementò nel nome anche la geolocalizzazione "in Vulture". Segno del destino? Coincidenza? Non si sa. Quello che si sa è che Pennella e di riflesso anche Rionero, sarebbero entrati nella Storia. La grande storia. Un uomo dalla carriera militare formidabile, uno stratega, un pianificatore, un Carlo Martello a Poitier, uno Jan Sobienski a Vienna. Questi ultimi due esempi non sono casuali. Rappresentano, infatti, alcune delle più significative esperienze di resistenza ad epocali assedi. A 13 anni, Peppino Pennella, come si firmava nelle lettere più intime, entrò nel Collegio Militare di Napoli arrivando primo su 32 idonei al concorso quadriennale. Nel 1882 andò a Modena, alla Scuola Militare, sorpassando più di 450 idonei su un totale di 499. Quando entrò alla Scuola di Guerra non deluse le aspettative arrivando secondo su trenta idonei. Di qui prese il brevetto presso il Comando del Corpo di Stato Maggiore e poi si iscrisse alla facoltà fisico – matematica dell'Università di Roma. In successione una serie di incarichi e missioni difficilissime, importanti e molto delicate. Senza contare i numerosi peripli sulle alpi per scandagliare palmo a palmo il suolo italico di confine. Ottenne dal Cadorna il riconoscimento delle sue non comuni abilità attraverso l'assegnazione del Comando della Brigata Granatieri di Sardegna in sostituzione del Gen. Pirzio – Biroli. Un onore riservato, convenzionalmente, a soli ex granatieri (come Pennella) ma non scontato affatto. Riporto le parole di Pennella per l'assegnazione tratte dall’opera 12 mesi al Comando della Brigata Granatieri

Giurai a me stesso quella mattina che una volta al comando della brigata, mi sarei recato per alcune ore tutti i giorni a vivere con i miei granatieri la loro vita in trincea per sentirne le ansie, i palpiti, i propositi, i sacrifizi, il polso: per animarli ed incitarli con la mia parola ed il mio esempio. Dio ed i miei granatieri mi sono testimoni che ho sempre tenuto fede al mio giuramento. Non è passato giorno che non sia andato in trincea. Nessun ostacolo mi ha mai arrestato: non la neve o la pioggia, non il vento od il fango, non il tiro del nemico. Andare cotidianamente tra i miei granatieri diventò per me bisogno irresistibile, diventò gioia della quale non mi sarei potuto privare a nessun costo. Non si può degnamente comandare non mantenendo assiduo contatto col soldato e la trincea. Questi contatti mantenuti per interposte persone, per quanto devote e coscienziose, spesse volte possono indurre in errori fatali e allontanano le anime dei gregari da quella del capo.

Da queste poche righe emerge nettamente che Giuseppe Pennella si sentiva generale e sacerdote insieme. Egli sa che il generale non deve essere il comandante rigido chiuso in partenza nella sua botte di ferro protetto dalla sua autorità bensì deve essere prima di tutto un soldato. Ma Pennella sa bene anche che non si può ottenere granché dai soldati, se prima non si prepara loro un terreno adatto a far germogliare i semi delle loro capacità. Sa che difficilmente si può toccare l’animo di un soldato se questi non è materialmente curato anche nei momenti di riposo, di istruzione, di tregua nelle seconde linee. Raggiungendo il comando della sua Brigata in quel di Udine, vide che i suoi granatieri stavano materialmente male. Accampamenti fangosi e antigienici, sporcizia, disagio, trascuratezza nelle vesti e nel corredo, assenza di bell’aspetto, di marzialità, abbruttimento, o quasi. Così volle immediatamente elevare le condizioni fisiche della sua Brigata. Ed ecco che in breve sorsero nuovi accampamenti salubri, con speciale assistenza sanitaria, con buone cucine da campo, con bagni, svaghi, pulizia; ecco, in breve, trasformarsi quegli irriconoscibili, e fangosi e depressi soldati in baldi granatieri di Sardegna, lindi, dignitosi nel portamento, marziali nell’aspetto, gioviali e sereni. Formato il substrato materiale, Pennella si accinse ad attuare i suoi nobili progetti in materia disciplinare e morale: propaganda di persuasione fatta con fini e squisiti mezzi psicologici, che solo un grande conoscitore dell’anima umana, come lui, poteva escogitare. Sapeva bene una cosa: 
«Tra i mezzi che in guerra più efficacemente possono concorrere al mantenimento della disciplina spirituale, il mio programma assegna il primo posto alla necessità di incitare e continuatamente stimolare al grande amore che deve giungere a riempire di sé l’anima del soldato, quello cioè per la Patria ed il Re, che riceve sostegno ed ausilio grandissimo dall’amore della famiglia e da quello di Dio. Una preghiera, quindi, che riesca a collegare in uno questi tre amori, recitata, o meglio, cantata in coro tutti i giorni, mattina e sera dai soldati riuniti per squadre o per plotoni, presenti tutti gli ufficiali inferiori, riesce di una efficacia grandissima e della quale solo chi l’ha praticata è in grado di apprezzarne l’intimo valore».
Fu così che da questa idea ne nacquero svariate canzoni del cantautore Pennella: « La preghiera dei Granatieri al campo», «Passa il Re!».

giovedì 13 dicembre 2018

Risorgimento lucano. 28. I fratelli Petruccelli a Potenza



FONTE: "Il Lucano, nel cinquantenario della rivoluzione Lucana, 18 agosto 1860- 18 agosto 1910", Potenza, Garramone e Marchesiello, 1910, p. 14.

giovedì 6 dicembre 2018

La Basilicata moderna. 28. Iconografia della Madonna del Rosario in Basilicata (1500-1600)

La Madonna del Rosario è una delle tradizionali e più celebri e importanti raffigurazioni nelle quali la Chiesa cattolica venera Maria, rappresentata con una veste azzurra e una corona del Rosario tra le mani. Si tratta di una rappresentazione particolarmente frequente nella devozione dopo la Controriforma, la cui iconografia è ripresa da quella, più antica, della Madonna della cintola.



Sull'iconografia della Madonna del Rosario in Basilicata la bibliografia è, tuttavia, molto scarna e comprende pochi titoli solo dagli anni Ottanta. Molto, in effetti, esiste solo per la Puglia, con un saggio del 1988 di Clara Gelao (La committenza delle Confraternite del Rosario nella diocesi di Castellaneta, in C. D. FONSECA (a cura di), La Chiesa di Castellaneta tra Medioevo ed età Moderna, Galatina, Congedo, 1993) e un saggio di Alessandra Anselmi, nel 2009, per la Calabria.
Le circa 60 opere, soprattutto pale d'altare, riscontrabili in Basilicata dalla seconda metà del Cinquecento a tutto il Settecento testimoniano una continuità nella devozione mariana, sviluppatasi dopo il 1572, quando fu istituita la festa della Madonna del Rosario con apposita Bolla di Pio V, che dispose una ricorrenza apposita la prima domenica di ottobre per ringraziare la Vergine della Vittoria di Lepanto. 
Soprattutto nel periodo 1575-1600 le pale rispondono ai dettami controriformistici: la Madonna è, come si nota dagli esempi riportati in foto, in trono, incoronata, con il Bambino in braccio. Molto presenti sono, poi, come si nota, i Domenicani, più impegnati a diffondere la devozione del Rosario: specialmente ritratti sono santa Caterina e san Domenico, speso appaiato a san Francesco, con il ruolo paritetico di salvatore della Chiesa.

Le perle lucane. 4. Maratea

 «Dal Porto di Sapri, che aperto è fama inghiottisse la celebre Velia, raccordata dal Poeta dopo Palinuro, nel golfo di Policastro, à dodeci...