giovedì 30 settembre 2021

La Basilicata contemporanea. 37. Un discorso di Fortunato nel 1897

Giustino Fortunato
Nella inaugurazione del tronco di ferrovia da Rionero a Potenza
(21 settembre 1897)


Mi è grato, onorevoli Ministri de’ lavori pubblici, delle finanze e della giustizia, signori del Consiglio provinciale di Basilicata e della Società per le strade ferrate Meridionali, di dare a voi tutti il saluto de’ miei conterranei del Circondario di Melfi, - oggi più che mai consapevoli di quale benefizio essi siano debitori allo Stato, che questa loro ferrovia ha voluta, alla Pro-vincia, che l’ha sussidiata, alla Società, che l’ha eseguita. Voi, o quelli fra voi che più intimamente mi conoscono, potete comprendere da quanta commozione sia vinto l’animo mio nell’ adempiere, dinnanzi a voi, un così affettuoso, doveroso mandato. 

Sono diciotto anni, proprio in questo scorcio del settembre, che un anonimo, il migliore più dimestico de’ miei amici, scriveva da un comune del Vùlture a un giornale di Roma le seguenti parole: «se per saggezza di popolo e di governi l’Italia godrà tale un periodo di pace operosa e di provvido raccoglimento da potere tradurre in atto tutto quanto il disegno ferroviario del 29 luglio 1879, che in caso contrario resterà documento e monumento di leggerezza parlamentare, il Circondario di Melfi avrà raggiunta la mèta e assicurata la sua rigenerazione ». 

Or io non so fino a che punto e popolo e governi abbiano corrisposto alle previsioni dell’anonimo di diciotto anni addietro, all’augurio di saggezza, alle speranze di pace e di raccoglimento; ma questo io so che l’Italia, nonostante le tempeste della sua //74// vita politica, le terribili sue ore di angoscia e di affanno, ha mantenuta, religiosamente, la fede promessa. Il tronco di ferrovia, che di qui a poco percorreremo, è l’ultimo della rete complementare decretata nel 1879, l’ultimo de’ quindici mila chilometri, costruiti dopo il 1860, l’ultimo della fitta maglia di ferro, tessuta da un capo all’altro del Regno intorno a Roma, ove già convergevano, presso l’aurea colonna miliare di Augusto, tutte le antiche strade della penisola. Così il voto della generazione cui dobbiamo l’unità della patria, è sciolto nel giorno dopo l’anniversario di Porta Pia: sciolto, anche prima del ventennio prescritto, in queste remote valli, in questi estremi gioghi dell’Appennino meridionale! 

Per ciò, o signori, l’importanza morale del fatto eccede di gran lunga qualsiasi benemerenza di persone, qualsiasi calcolo di utilità immediate. A ben altre considerazioni, in un’ora tanto solenne, giova inspirare e l’animo e la mente. Noi non festeggiamo qui la vittoria di un interesse locale, non siamo qui per dare o ricevere congratulazioni e lodi per l’opera compiuta. 
Che cosa mai valgono i titoli di merito dell’uno o dell’altro fra noi, che cosa mai importa lo stesso tornaconto della terra natale, dinnanzi alla grande affermazione che l’Italia, guardando fiduciosa nell’avvenire, non sorretta da altro se non da fini altamente ideali, ha fatta, mediante le ferrovie, della sua unificazione politica? 

L’unificazione politica! Pareva, più che un sogno, una follia, data la singolare configurazione del nostro paese. Certo, non vi è regione come l’Italia che abbia un’individualità fisica più netta e distinta; ma, in tanta armonia esteriore, quanti ostacoli da un versante all’altro dell’Appennino, quali contrasti dal Piemonte e dal Veneto alle Puglie e alla Sicilia ! Nessun paese è meno accentrato del nostro, nessuno ha più difficili le vie naturali di comunicazione interna, nessuno un maggior numero, una maggiore varietà di distretti geografici: un vero semenzaio di staterelli, obbligati, per vivere, a creare, a fomentare il disgregamento //75// politico della nazione. Cosi la struttura della penisola è stata causa principale della nostra debolezza, e tutta la nostra storia ne ha risentite le dolorose conseguenze. L’Italia assimilò o respinse i molti elementi che le affluirono da tutti i valichi delle Alpi, da tutte le prode de’ suoi mari; ma essa, dacché fu rotto il fascio di Roma imperiale, non giunse mai più a ricomporsi in unità, a salvare la sua indipendenza. Che anzi uno strano dualismo, una fatale divisione si andò via via accentuando tra il Settentrione e il Mezzogiorno; e toccò a noi meridionali, tagliati fuori da tutte le correnti della civiltà, scontare più duramente il funesto privilegio dell’autonomia. Non abbiamo noi forse, anche oggi, due Italie in una? La impressione del viaggiatore, che percorre la penisola dal Po alle Calabrie, non è forse, anche oggi, quella di passare in pochi giorni, in poche ore, dall’ Europa a’ paesi di Levante? Non avete voi stessi, questa mane, lasciando Napoli e la Campania, attraversate intere plaghe deserte, i cui villaggi, in cima alle alture, sono tuttora come chiusi entro mura feudali? 

E però, se il moto unitario del 1860, frutto di un processo meramente letterario e della buona fortuna, ha potuto, malgrado tutto, avere consistenza e vitalità, ciò è dovuto all’impulso di un fatto assolutamente artificiale, all’efficacia di una causa esclusivamente tecnica: le ferrovie. L’unificazione politica non è stata possibile una seconda volta, senza l’unificazione geografica. Le strade ferrate, correggendo il vizio di conformazione, e seguendo le stesse tracce delle grandi vie lastricate, di cui il genio di Roma volle solcata l’Italia, hanno compiuto il miracolo. Gl’ingegneri, i costruttori e gli operai valsero, per l’unificazione della patria, non meno de’ màrtiri, degli statisti e de’ soldati. 

Esse l’han fatta, ed esse, ho fede, le daranno vigore e durata, sia suscitando il comune sentimento della vita nazionale, sia improntando di un solo significato la nostra storia avvenire. 
La rivoluzione intellettuale, per esse, io spero, sarà pari alla rivoluzione sociale, e le due Italie, più presto che non si immagini, si fonderanno spiritualmente in una, ricambiandosi la miglior parte di sé, la parte più nobile della loro coscienza. - //76//

Un gran cattivo affare finanziario, senza dubbio, le leggi ferroviarie del 1879 e del 1888! 

Un cattivo affare, quello delle strade ferrate, a cui sono stati trascinati, come pare, tutti i popoli civili della terra... Non sono ancora trascorsi settant’anni dalla prima locomobile a vapore di Stephenson, e già da un capo all’altro del mondo si stendono settecento mila chilometri di ferrovie, de’ quali duecento cinquanta mila ne’ soli Stati di Europa. La trasformazione subitanea de’ mezzi di comunicazione, che ha avuto per effetto di accelerare prodigiosamente i trasporti, riducendone il costo e scemandone i pericoli ; questa enorme diminuzione delle distanze, che è certo il maggiore avvenimento del secolo, sbalordisce. 
Ieri appena, nell’ arrischiare un viaggio per le nostre contrade, non bisognava forse a’ padri nostri quell’aes triplex, di cui Orazio diceva corazzato l’animo de’ primi navigatori ? 

Tutto è mutato, nel corso di due sole generazioni. L’universale livellamento de’ prezzi non è più un’allucinazione di mente inferma, e nella lista delle miserie umane più non figura la carestia: il monopolio della rendita fondiaria è scemato, e la bonifica delle terre meno fertili è resa possibile. Arago scriveva, nel 1838: « non si redime una provincia né si allieta una re- gione, piantandovi delle rotaie di ferro ». Eppure in un quarto di secolo le strade ferrate hanno risanata la Sologna, in un decennio estesa la sicurezza delle campagne a tutta quanta l’Italia meridionale, a cui tante volte e in tanti modi queste povere strade ferrate sono state rinfacciate e rimproverate. 
Thiers profetizzava, nel 1856: «la vaporiera non darà la pace a’ regni, né la giustizia a’ popoli ». Eppure non mai come ora i regni paventano la guerra, non mai come ora i popoli aborrono dalla frode e dalla violenza. Dacché mondo è mondo, niente ha contribuito di più a una minore ineguaglianza delle condizioni sociali quanto la odierna mobilità di uomini e di cose, che desta i cuori a una maggiore capacità di intendere e di sentire, che eleva il pensiero a una più larga //77// contemplazione, a una più retta aspirazione della vita. Certo, vi è pure chi ha la malinconia di rimpiangere, in tutto o in parte, il passato. Ma, almeno, finché l’ora non è suonata della grande apocalisse, predetta o temuta dagl’ideologi, sia lecito a me, non ottimista, ma non ignaro né immemore della profonda tristezza de’ tempi andati, di ripetere ancora una volta, qui, tra’ miei comprovinciali, che l’Italia di oggi è incomparabilmente più buona dell’ Italia di ieri, e quella dell’avvenire migliore della presente, perché il dominio della ragione, piaccia o non, si va sempre più diffondendo ne’ motivi morali, negli abiti intellettuali delle nostre moltitudini. 

Vi si diffonde e penetra con la stessa ansia, la stessa alacrità, con cui la macchina del treno inaugurale, or ora, ascenderà e traverserà l’Appennino di Avigliano. Non gli avi lontani, ma noi stessi, pochi anni addietro, non avremmo potuto immaginar tanto! Sappiamo noi forse che cosa sarà mai il domani? Vi è nota la storia di quell’archeologo, che in una tomba egiziana scopri un pugno di grano, rimasto cinque mila anni, accanto alla mummia, senza mai rivedere il sole. Potevano i germi di que’ chicchi appassiti ridare le spighe a’ venti? Pareva di no. Ma il grano de’ Faraoni, sparso nelle zolle e fecondato dalle acque del Nilo, tornò a sbocciare i teneri steli alla carezza dell’aria nativa. Chi può dire che dal seno inesauribile di questa madre antica, la dolce terra d’Italia, non debbano erompere, premio all’ardimento della generazione che tanto osò per noi, che per noi e per queste nostre ferrovie dell’Ofanto né mosse da fini di lucro né lesinò il pubblico danaro (I); chi può dire non debbano erompere, un giorno, frutti di vita nuova e di giovinezza? 
Ah no, non può il mondo avere speso cento ottantaquattro miliardi circa, non può l’Italia averne dati via cinque, nelle 

(I) G. Fortunato, Delle strade ferrale Ofantine, scritti e discorsi (1880-1897), Firenze, tip. G. Barbèra, 1898. 

//78// costruzioni ferroviarie, senza la speranza, senza il presentimento di una più felice età futura! Que’ cinque miliardi a noi non rendono, è vero, se non l’uno e mezzo per cento. Ma il sagrifizio sarà stato lieve, e benedetti coloro che han saputo affrontarlo, se noi otterremo che il primo e immediato scopo dell’opera, lo spirito di coesione nazionale, sia interamente raggiunto; se non dimenticheremo che il nuovo Stato unitario è un ente politico ancora assai debole : debole, soprattutto, per il difetto di fiducia, per la mancanza di consenso da parte de’ lavoratori della terra. La salute è in noi, nel morale rinnovamento di tutto il costume, di tutta l’anima nostra, qualora da questo gran dramma, che è la vita sociale moderna, noi vorremo trarre, sul serio, forza alla religione del dovere, nutrimento alle più pure energie del carattere. Quel che occorre, principalmente, è una visione schietta, un senso preciso della realtà penosa e dura, del vero quale proprio esso è, non quale, per vecchio abito di rettorica, noi lo sogniamo o ci lusinghiamo che sia. Troppo crediamo ancora nel pregiudizio delle ricchezze latenti, della feracità di suolo, della bontà di clima di tanta parte del nostro paese: troppo mostriamo ancora ignorare che il terzo di tutto il reddito lordo della nazione è assorbito, ormai, dalle imposte, i quattro quinti del bilancio dello Stato e de’ Corpi locali da spese, per un verso o per l’altro, intangibili. Or se è bene esser temuti all’estero, è anche meglio poter vivere sicuri e laboriosi all’interno. Vogliamo giungere in porto e scongiurare il pericolo? Rammentiamoci, al punto ove siamo, che data la nostra potenzialità effettiva, ogni aumento di pubblici gravami è una colpa, ogni nuovo debito, sotto qualunque forma e per qualsiasi motivo, un delitto: ciò che vale, in lingua povera, far punto con tutte le illusioni, con tutte le ubbie. L’ Italia agricola, risoluto il problema della viabilità, in cui è la massima sua guarentigia, non ha bisogno se non di questo: che l’interesse del capitale sia, il più che possibile, mite; ciò che importa, semplicemente, libera disponibilità del risparmio nazionale. Questo, o l’inganno e la rovina. E la rovina, per noi classi dirigenti, vorrà dire il rammarico, forse anche il rimorso che tanta //79// genialità e tanta virtù furono invano, che fu invano tutto il dolore, tutto l’amore nostro per l’unificazione politica della patria. . . 

Onorevoli Ministri, signori consiglieri provinciali e rappresentanti la Società, nel nome a me caro del Circondario di Melfi, la bella e ricca plaga del Vùlture, onde si diffusero lungi le prime glorie, le prime leggi della monarchia meridionale; nel nome suo, e con l’animo infinitamente devoto, io alzo il bicchiere e bevo allo Stato italiano, alla sua saldezza, alla sua prosperità ! 

FONTE: G. FORTUNATO, Il Mezzogiorno e lo Stato italiano. Discorsi politici (1880-1910), Bari, Gius. Laterza & Figli, 1911, vol. 2.

giovedì 23 settembre 2021

Risorgimento lucano. 39. Imputati di reati politici in Basilicata per i fatti del 1848

FONTE: F. ECHANIZ, Atto di accusa e conclusioni date dal Procurator Generale del re Francesco Echaniz nella causa per reità di stato consumate in Potenza nel corso dell'anno 1848, Potenza, Tip. V. Santanello, 1852, p. 105.

giovedì 16 settembre 2021

Risorgimento lucano. 38. Il Memorandum del 1848

FONTE: ARCHIVIO DI STATO DI POTENZA, Processo per la Setta dell’Unità d’Italia, b. 3, f. 5, "Memorandum delle province confederate", 25.06.1848

giovedì 9 settembre 2021

Personaggi. 26a. Petruccelli della Gattina romanziere

Petruccelli della Gattina è noto come giornalista e scrittore politico, ma la sua attività fu anche scandita da romanzi che all'epoca fecero un certo scalpore. 
Nel 1845, attingendo alla grande enciclopedia medievale, pubblicò a Napoli il suo primo romanzo, di ispirazione gotica, Malina. Storia napoletana del secolo quattordicesimo, cui seguì nel 1847 a Parigi Ildebrando. Cronache del secolo undicesimo, che, con la sua radicale critica al potere temporale dei papi, fu ristampato dall’editore milanese Daelli nel 1864 con il titolo Il re dei re. Convoglio diretto nell’XI secolo. Francesco Torraca lo definì «uno dei più strani che abbia mai letti».
La sua opera letteraria più nota, Memorie di Giuda (Milano 1870), fu prima pubblicata a Parigi nel 1867 con il titolo Les mémoires de Judas, e tradotta da lui stesso in italiano. In questo particolare romanzo storico la materia dei Vangeli fu ripresa inserendo una quantità di personaggi d'invenzione e presentando un Cristo del tutto umano; alla narrazione erano mescolati frequenti riferimenti al presente, nella decisa prevalenza della dimensione politica del racconto. Memore dei suoi studi giovanili presso Rosini, Petruccelli spacciò il testo per il volgarizzamento di un codice apocrifo del Nuovo Testamento ritrovato tra i papiri di Ercolano da parte del giovane Fabrizio. Un simile ‘Giuda rivoluzionario’ scatenò inevitabilmente le ire del mondo clericale.
Ancora, degli anni Settanta sono Il re prega (Milano 1874), Il sorbetto della regina (1875) e I suicidi di Parigi (Milano 1876); Giorgione (1879), che, con il successivo Imperia (188I pinzoccheri. Scene della rivoluzione francese, I-II, Bologna 1892.
0), segna il ritorno al romanzo storico della giovinezza. Postumo apparve il romanzo

Su di lui come romanziere pesa, forse, ancora la stroncatura che nel 1937 ne diede, impietosamente, Benedetto Croce:

"Quale delusione nello sfogliare i volumi di giornalisti che ebbero un tempo gran numero di lettori am-miranti e che parvero fontane zampillanti di vivacissimi spiriti ; quale sproporzione tra la pomposa risonanza del loro nome e l’effettiva povertà delle loro parole stampate ! Chi può ora sostenere la lettura dei romanzi dovuti alla penna del focoso giornalista-epigrammista che fu Ferdinando Petruccelli della Gattina: Il re prega, Il sorbetto della regina e altrettali, che vorrebbero dare quadri della Napoli borbonica e danno un cumulo di cose enormi, di delitti tenebrosi, di stranezze, di scempiaggini, senza disegno e senza stile, con una disinvoltura e un brio di maniera, meccanici e falsi? Le Memorie di Giuda del medesimo autore, scritte più abilmente, offrono l’ordinario ciarpame di lussuosità, lussuria, voluttà e crudeltà, che è d’obbligo nei romanzi sull’età imperiale, e par che contino sullo sbalordimento dei lettori nel leggere che Gesù aveva una sorella di nome Ida, la quale era stata venduta ai piaceri di Ponzio Pilato ed era fidanzata a Giuda, e aveva anche uno zio chiamato Barabba, e che egli fu bensì crocifisso ma tolto ancor vivo dalla croce e risanato e segretamente condotto a Roma, dove morì tre anni dopo di consunzione, assistito da Giuda e da Pilato; e simili stravaganze. Il pezzo forte del romanzo è la scena del furore di Claudia, moglie di Pilato, che fa gettare Ida nella vasca delle murene:

Appena il corpo di Ida cadde nel bacino, quelle centinaia di serpenti, come in un sol gruppo, si scagliarono sopra di lui. Ida si rialzò, e tentò di stare in piedi. L’acqua la copriva sino al. petto. Cominciò a strappare colle sue mani le murene che, come enormi sanguisughe, le si attaccarono con la bocca tutta aperta, formando un disco armato di succhiatoi, e la morsero... 
Ida ricadeva e spariva sotto l’acqua per un istante: poi si rilevava. Il suo collo e le sue guance erano stati invasi e morsicati. Si sarebbe detta una testa di Medusa. Le mani le braccia erano avvinghiate da quegli orribili mostri. Era divenuta una sola piaga: l’acqua arrossava. In quel punto una murena le saltò alle labbra. Ida piegò. Altre le si ap-presero agli occhi. Gettò un grido: fece uno sforzo supremo per sbarazzarsi da quelle morse viventi, da quei ferii divoratori, e riuscì a sbrattarne per un istante ancora il suo bel viso, orribilmente lacerato, poi vacillò e si abbiosciò ..." (da B. CROCE, Aggiunte alla “Letteratura della nuova Italia”, in «La Critica», n. 35 (1937), pp. 291-292).

giovedì 2 settembre 2021

Il Mezzogiorno moderno. 18. I De Cardenas: una famiglia potente

I De Cardenas avevano origini spagnole. 
Un ramo fu importato in Sicilia da Giovanni, Pretore di Palermo, nel 1321-22. Ne fu capostipite il nobiluomo spagnolo Fernando, originario di València, che aveva sposato una discendente diretta della Casa Reale di Castiglia e Leon. 
Tra i membri della famiglia si annoverano Giovanni, governatore della Camera sotto la regina Elisabetta; Alfonso, Castellano di Piazza e Marchese di Laino; Ferdinando, Principe del Sacro Romano Impero, tenente colonello di fanteria e Governatore di Milazzo nel 1723. 
Lo stemma araldico della famiglia era costituito da un’arma d’oro, due lupi passanti l’uno sull’altro, posti in fascia e la bordatura rossa, caricata di otto conchiglie e otto S maiuscole d’oro, alternate.
I Cardenas, in Basilicata, possedettero il feudo di Pisticci per oltre due secoli, dal 1593 a tutto il 1806 .
Precisamente, la presa di possesso della Terra di Pisticci venne registrata il 10 luglio 1593, con atto del notaio Camillo Positano di Bari. Quale primo atto vennero avviati gli interventi di ristrutturazione e ampliamento del castello, che divenne “castello degli Acerra”, dal momento che i De Càrdenas erano feudatari anche di Acerra e di Laino. Il castello, opportunamente fortificato, continuò a svolgere le funzioni di dimora della famiglia, dei governatori, di agenti e ospiti. Fu sede di uffici amministrativi e giudiziari e, nei piani inferiori, fu dotato di ambienti per il corpo di guardia. Solo per un breve periodo il feudo di Pisticci fu trasferito a Camillo De Curtis, proveniente da un’antica famiglia di origini longobarde, nel 1594, per poi essere nuovamente riacquistato, nel 1595, da don Bernardino De Càrdenas.
Patrizio napoletano, don Bernardino aveva sposato Fulvia Caracciolo, figlia di don Ferrante I duca di Airola, preferendo sempre la vita tranquilla di Pisticci al lusso e agli intrighi della capitale. Dopo la sua morte, avvenuta  il 14 gennaio 1625 a Pisticci, dove si era definitivamente stabilito, il feudo passò al figlio Giovanni, che ereditò il titolo paterno di Signore di Pisticci. Entrambi furono tumulati nella chiesa del Convento francescano di santa Maria delle Grazie (come si rileva ancora oggi dalle lapidi dei due sepolcri all’interno della stessa chiesa) .


FONTE: G. RECUPERO, Esame, e rischiaramento di altri dritti della corona sulle provincie del regno di Napoli, Napoli, Presso Gioacchino Milo, 1793, p. 96. 

Le perle lucane. 4. Maratea

 «Dal Porto di Sapri, che aperto è fama inghiottisse la celebre Velia, raccordata dal Poeta dopo Palinuro, nel golfo di Policastro, à dodeci...