Con la vittoria di Austerlitz del 2 dicembre 1805, Napoleone Bonaparte si risolse ad occupare il Regno di Napoli, dichiarando decaduta la dinastia borbonica che pochi mesi prima era entrata nella terza coalizione antifrancese. E già verso la fine del gennaio 1806 un esercito di quarantamila uomini, al comando del generale Massena, si dirigeva alla volta di Napoli, costringendo i contingenti inglesi e russi ad abbandonare il regno, mentre Francesco, nominato vicario dal Ferdinando IV, si rifugiava in Calabria per organizzarvi la resistenza. Il 15 febbraio, i francesi entravano vittoriosi a Napoli.
Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, diventava il nuovo re di Napoli, senza problemi né ostacoli. Anzi da tutte le province giungevano delegazioni locali per onorare il nuovo sovrano e giurare fedeltà. E nuovi sudditi arrivavano anche dalla Basilicata, dove le famiglie più rappresentative e influenti avevano accolto come liberatori i francesi, per conservare i benefici acquisiti e una posizione di preminenza. Sul piano opposto, si collocavano intanto le famiglie della media borghesia e le classi medio-basse delle popolazioni che vedevano i francesi come invasori e null’altro. Per i francesi i pericoli provenivano non tanto dai pochi oppositori interni ma dagli inglesi che erano sbarcati in Calabria. Dopo la sconfitta di Maida del 4 luglio i francesi rientravano in Basilicata dove erano in corso sommosse da parte di reparti borbonici con l’appoggio delle popolazioni.
Il governo del regno intanto era stato assunto temporaneamente dalla nobiltà e dalla ricca borghesia che delegavano il marchese Corrado Malaspina e il duca Ottavio Morbile di Campochiaro a trattare le condizioni della resa. I francesi si proponevano almeno inizialmente di mantenere nei loro ruoli i funzionari civili, giudiziari e amministrativi, una mossa strategica per non rompere del tutto gli equilibri interni e infondere così nella popolazione sentimenti di vicinanza e amicizia.
A Giuseppe Bonaparte, nominato re, dopo la partenza del fratello Napoleone, va il merito di aver intrapreso alcune importanti e sostanziali riforme nel campo politico, economico, amministrativo, finanziario, sociale e religioso, con la creazione di nuovi organi con poteri distinti e specifici. Giuseppe si trovò subito a fronteggiare i primi moti di rivolta e i fermenti antifrancesi che non tardarono a manifestarsi nelle varie province del regno e soprattutto in Basilicata e Calabria, dove tornò ad organizzarsi la resistenza antinapoleonica guidata dal colonnello Alessandro Mandarini di Maratea. Il compito di sedare tutte le forme di ribellione, da qualsiasi parte provenissero, fu affidato al generale Andrè Messena che agli inizi del suo mandato controllò soprattutto i territori di Gaeta e Civitella sul Tronto e il confine calabro-lucano, dove, erano concentrate le armate napoletane agli ordini del gen. Roger Dumas, contro cui fu inviato il gen. Reynier, al comando di dodicimila uomini, mentre il reparto del colonnello Remaker si spingeva verso Lagonegro, presidiata da oltre duemila uomini comandate dal maresciallo Minutolo.
E la guerra assunse sin dai primi scontri toni cruenti, provocando morti da una parte e dall'altra. In Basilicata, dopo la conquista e il sacco di Lagonegro, il generale Massena rivolse le sue maggiori attenzioni alla città di Lauria, diventata un vero focolaio di rivolta alla ripresa delle ostilità tra i regnanti della casa di Borbone e gli occupanti francesi. Nei pressi del paese, tra il 7 e il 9 agosto, vennero barbaramente trucidati dai Napoleonici circa mille cittadini che si erano ribellati, rei di aver sostenuto la causa borbonica, evento passato alla storia come il «massacro di Lauria». Ma non potevano bastare il saccheggio e la strage; occorrevano punizioni molto più severe che servissero da monito. Così per ritorsione verso la città ribelle e sulla base della legge n. 132 dell'8 agosto 1806 Lauria fu privata del titolo di capoluogo di Circondario e della sede di Giudicato, a tutto vantaggio di Lagonegro che pure contava un numero minore di abitanti e si trovava in posizione decentrata rispetto al territorio.
Altro scontro sanguinoso si svolse nei pressi di Campotenese con l’esercito francese che prevalse sui Borboni che pure erano guidati da due abili ed esperti condottieri, Sciarpa e Rodio. E alcuni giorni dopo furono conquistate anche Cosenza e Reggio. Gli incendi di interi paesi, masserie e villaggi, le fucilazioni di massa, i soprusi e i frequenti saccheggi commessi dai soldati francesi suscitarono dovunque l’indignazione, il malcontento e la reazione delle popolazioni e quindi favorirono la costituzione delle prime bande armate di insorgenti. Tra i primi paesi ad insorgere nel giugno del 1806 Crotone, Savelli, Cerenza, Longobucco, Corigliano in Calabria, ma la rivolta si estese gradualmente anche nelle altre province del Regno.
I primi mesi dell’insediamento di Giuseppe Bonaparte furono caratterizzati da un’intensa attività legislativa. Con il decreto n. 71 del 15 maggio 1806 fu poi istituito il Consiglio di Stato, che ebbe all’inizio un ruolo prettamente consultivo, esprimendo i propri pareri su qualsiasi argomento,soprattutto in materia tributaria. Successivamente le sue funzioni furono ampliate e con il decreto del 5 luglio 1806 il Consiglio di Stato fu diviso in quattro sezioni: legislazione, giustizia e culto, finanza, interno e polizia, guerra e marina. I diversi progetti di riforma delle istituzioni, tentati senza successo nella seconda metà del Settecento dai governi ispirati dagli intellettuali illuministi, trovarono concreta e rapida attuazione nel “Decennio francese”. Tuttavia ciò fu possibile soltanto mediante la forza e la determinazione di una potenza straniera sorretta pur sempre da un esercito invasore.
La comprensione di questo aspetto è fondamentale per riconoscere alcuni vantaggi delle innovazioni introdotte dai francesi nel Regno di Napoli, che non furono una semplice ripresa delle riforme settecentesche e della «Prima Restaurazione», come potrebbe far pensare il coinvolgimento di uomini quali Galdi, Cuoco o Zurlo a Napoli. Infatti le riforme del “Decennio” furono caratterizzate da immediatezza e decisione nell’introdurre le innovazioni come anche dalla contemporaneità di esse nei vari settori della vita civile. Gioacchino Murat completò, specialmente nel campo politico e amministrativo, le iniziative del suo predecessore, preoccupandosi anzitutto della legislazione riguardante la disciplina e l’esecuzione delle norme generali. Tuttavia la gestione del potere nel regno di Napoli fu particolarmente difficile per le condizioni e i limiti posti dallo stesso Napoleone Bonaparte sull’operato del Murat. I rapporti fra i due furono abbastanza difficili, caratterizzati da alterne fasi di difficoltà, crisi e riconciliazioni.
Nonostante il diffondersi in maniera più o meno capillare di forme varie di protesta e di guerriglia, che animavano parte delle popolazioni lucane, in un primo momento, il nuovo scenario politico non sembrò avere particolari ripercussioni in Basilicata, dove molti notabili si dimostravano ben disponibili e favorevoli al nuovo ordine né preoccupava più di tanto i francesi la presenza di retroguardie dell’armata borbonica stanziate alle falde della catena del Pollino. Tuttavia quando alcune manifestazioni antifrancesi vennero promosse a Pescopagano e a Muro Lucano, ad opera di anziani giacobini del 1799, si capì che la situazione in Basilicata non era da sottovalutare, anche se i vari rapporti di polizia risultavano contradditori e controversi circa il comportamento mantenuto dalle popolazioni.
Ed i sospetti non erano infondati: Calvello era insorta su iniziativa della famiglia de Porcellinis, che estendeva la sua sfera di influenza e di azione anche a Sasso di Castalda e sul versante lucano del Pollino, nella valle del Sarmento, mentre, nei paesi della costa ionica e in quelli delle valli del Sinni, dell’Agri e del Sauri e sul massiccio della Lata, suscitava molta apprensione nelle autorità la presenza di Francesco Antonio Rusciani, già capomassa del cardinale Ruffo nel 1799.
Ma dopo l’arresto del Rusciani, ad opera di una colonna mobile francese inviata a Terranova del Pollino, e la distruzione delle bande che dal Vallo di Diano minacciavano la provincia, la Basilicata non sembrava suscitare più eccessive preoccupazioni anche se emissari borbonici ed inglesi continuavano a raggiungere i paesi delle valli dell’Agri, del Sinni e del Sarmento dove si doveva organizzare una grande rivolta armata contro i francesi. Nuovi focolai stavano intanto sorgendo a Muro Lucano, Avigliano, Vignola, Laurenzana, Corleto Perticara, Tito, Vaglio, Cancellara, dove capipopolo del 1799 riprendevano armi e divise per promuovere rivolte e congiure. Nel successivo mese di dicembre, il colonnello Alessandro Mandarini, ricevuto ordine dai Borbone di riorganizzare le forze legittimiste e opporre una resistenza all'avanzata francese, fu protagonista di un lungo scontro nei pressi del castello di Maratea, assediato dal generale Jean Maximilien Lamarque.
Mentre era in atto la guerra, la proclamazione del nuovo regno trovò invece fieri sostenitori nei giacobini della Repubblica Napoletana del 1799 che così salutarono con grande soddisfazione la sconfitta dei Borbone, i principali responsabili della feroce precedente repressione.
I nuovi amministratori, dal canto loro, dimostrando una grande abilità diplomatica, continuavano a servirsi non solo di esperti funzionari francesi ma anche dei napoletani che pure erano stati fedeli servitori del regime borbonico. La monarchia dei Napoleonidi non cercava la repressione per i nemici e rivali ma adottò sempre la politica dell'efficienza amministrativa e quella delle riforme, con l’istituzione, tra l'altro, del Codice napoleonico, che conteneva una serie di nuove norme sulla proprietà e sul possesso, decretando la fine del feudalesimo e quindi l’avvento di nuove classi emergenti di amministratori.
La lotta al brigantaggio costituì ad ogni modo, l’altra rilevante fase storica che caratterizzò il decennio francese. I Napoleonidi, per debellare e reprimere il particolare fenomeno, sferrarono un forte attacco alle bande, ai collaboratori, protettori e manutengoli. Il brigantaggio d’altra parte era in forte evoluzione, favorito, alimentato e sostenuto dai Borbone in esilio, che con la complicità del governo inglese, si riproponevano di riappropriarsi del loro Regno, come già era avvenuto nel 1799.
La presenza di comitive brigantesche, guidate da esperti e fanatici capibanda, era particolarmente diffusa in Basilicata, nel Lagonegrese, nella zona di Maratea, in Valbasento.
Solo dopo tre anni di aspri combattimenti e guerriglie, condotti a tutto campo, quello che la storia definisce primo brigantaggio poteva ormai considerarsi vinto, con i principali capi uccisi, altri assicurati alla giustizia e passati per le armi dopo sommari processi.
Ma il brigantaggio era stato anche l’espressione della rivolta dei poveri contadini, privati di quel poco che avevano e ai quali erano state negate le assegnazioni di terreni promesse. Anche se il governo francese distribuì delle terre demaniali, il malcontento dei molti esclusi prese il sopravvento determinando atteggiamenti e moti di ribellione.
Uno tra i fatti di sangue più gravi, forse il più drammatico e cruento del Materano, si registrò il 28 febbraio 1808 a Pisticci, assalita dalla banda capitanata da Nicola Abalsamo, detto Pagnotta, coadiuvato dal fratello-prete Pasquale, entrambi di Terranova del Pollino (Terra di S. Giorgio Lucano) e dal vicecapo Francesco Antonio Vicino, proveniente da Oriolo.
Ma la reazione delle autorità militari non si fece attendere e alcuni giorni dopo, il generale Louis Franceschi, responsabile dell'ordine pubblico nel Materano, fece fucilare alcuni cittadini di Pisticci, che, a suo giudizio, avevano collaborato con i briganti. Stessa sorte di Pisticci sarebbe toccata anche a Montalbano, che Pagnotta intendeva assalire subito dopo ma i cittadini, venuti a conoscenza dei suoi propositi, corsero subito alle armi per impedire ai briganti di entrarvi. La banda Pagnotta, tra il 1807 e il 1808, imperversò per tutto il Materano con ruberie, incendi e ricatti e per il governo francese era ormai diventato un grave ostacolo al processo di democratizzazione. Per cui furono mobilitati ingenti contingenti armati per averne ragione.
Dopo il saccheggio di Pisticci, un altro capo brigante, già noto al governo francese, di nome Taccone, si rese protagonista del sacco di Abriola nel 1809, al comando di circa sessanta uomini armati che si abbandonarono ad una serie di efferati delitti, di furti e di violenze.