La più recente storiografia ha letto le vicende della Repubblica del 1799 come parte di un comune “spazio politico”, che si era venuto a creare in Italia dal 1796, con l’arrivo delle truppe di Napoleone Bonaparte : in questo senso, la Repubblica napoletana non avrebbe costituito un elemento di eccezionalità rispetto alle altre Repubbliche giacobine in Italia, ma, nonostante le peculiarità e le tradizioni del territorio, rientrò in quella grande stagione di libertà che coincise con la campagna d’Italia di Napoleone, in linea con le varie esperienze delle altre “repubbliche sorelle”: basti pensare al fatto che la costituzione redatta da Mario Pagano era molto simile alla costituzione francese dell’anno III, approvata dalla Convenzione il 22 agosto 1795 e ripresa già a Milano, a Genova e, con molte restrizioni, a Roma . In effetti, nemmeno il tentativo di trovare una relativa autonomia rispetto alla Francia o le resistenze popolari al processo di democratizzazione rappresenterebbero dei tratti esclusivi della Repubblica napoletana, perché questi aspetti erano presenti da tempo ai patrioti di tutta la penisola .
La prima ricostruzione, coeva agli avvenimenti, fu dei cronisti di parte regia, innanzitutto del domenicano Antonino Cimbalo, testimone delle vicende e autore di un Itinerario della spedizione, dato alle stampe nel 1799, che offrì l'eco immediata dei fatti, con un impianto forzatamente cronachistico, limitandosi alla «narrazione sincera di quanti sono stati gli effetti ammirabili nelle gloriose vittorie riportate da quei soldati, che sotto del Reale Crocesegnato vessillo han combattuto».
Più meditata fu invece l'opera del siciliano Domenico Leopoldo Petromasi, che aveva seguito il cardinale Ruffo dall'inizio della sua impresa ricoprendo la carica di commissario di guerra per le attività logistiche e ottenendo dal re, al termine del conflitto, il grado di tenente colonnello come riconoscimento per l'opera svolta.
Il carattere di radicale novità del conflitto fu colto, sul versante rivoluzionario, da Vincenzo Cuoco, che nel 1801, esule a Milano, pubblicò il Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799, nel quale individuava le ragioni del fallimento della Repubblica napoletana nella frattura operata dai giacobini nei confronti della storia e delle tradizioni del Regno e, nel campo “legittimista”, dall'abate Domenico Sacchinelli, estensore delle Memorie storiche sulla vita del Cardinale Fabrizio Ruffo, ma soprattutto da Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, che nel 1834 raccolse le sue considerazioni nella Epistola ovvero riflessioni critiche sulla moderna storia del reame di Napoli del generale Pietro Colletta .
Vincenzo Cuoco aveva partecipato all’esperienza rivoluzionaria napoletana, anche se non senza riserve: nel suo Saggio storico ricostruì le fasi della rivoluzione fino alla caduta della Repubblica, sottoponendole al vaglio di una critica lucida e severa, non priva tuttavia di accenti di commossa partecipazione al sacrificio dei “patrioti” napoletani: Cuoco analizzò le cause del fallimento di quell'esperienza trovandole principalmente nell'intrinseca debolezza di una rivoluzione che egli definì “passiva”, indotta dall'esterno ma non sostenuta da un forte coinvolgimento popolare, ricca di tensioni ideali ma innestata in una realtà politico-sociale inadatta a gestire le istanze libertarie e democratiche, con un giudizio che sarebbe divenuto punto di riferimento obbligato per tutta la storiografia successiva sull’intero Triennio giacobino. Diversi erano i motivi per i quali giudicare “passiva” la rivoluzione a Napoli: in primo luogo la popolazione del Regno non l’avrebbe mai fatta da sé, ma perché “importata” dall’esercito francese occupante, sotto forma di rivendicazioni buone ma estranee ai reali bisogni della popolazione meridionale .
La posizione di Cuoco può essere considerata distinta e contrapposta a quella di Francesco Lomonaco, che partecipò nel 1799 alla rivoluzione e, in seguito, andò esule in Francia: da questa esperienza nacque il suo Rapporto al cittadino Carnot sulle segrete ragioni e su’ principali avvenimenti della catastrofe napoletana (1800), nel quale Lomonaco credeva che la causa del crollo della Repubblica napoletana si potesse imputare esclusivamente alla politica del Direttorio .
Vincenzo Cuoco e Pietro Colletta, testimoni diretti degli avvenimenti del 1799, fin dall'inizio diedero al dibattito storico un taglio particolare, di ricerca e di meditazione sugli errori commessi dai repubblicani, per dimostrare che la fine della Repubblica napoletana era stata la conseguenza di una rivoluzione accettata «passivamente»: Cuoco, soprattutto, si sforzò di presentare quel fallimento come la conseguenza di sbagli e di circostanze avverse, così da salvaguardare il ruolo dirigente dell'intellettuale e il suo diritto a ergersi come rappresentante della nazione.
La polemica storiografica fra i due opposti schieramenti venne alterata, però, dall'autocensura borbonica, che pose le radici della sconfitta culturale dei “sostenitori del Trono e dell'Altare”: infatti, Ferdinando IV, nel 1801, dopo l'amnistia imposta dai francesi con il trattato di Firenze, proibì la pubblicazione di opere sul periodo repubblicano e sulla spedizione della Santa Fede, cioè su una vicenda che, per quanto vittoriosa, egli considerava legata agli eccessi di una guerra fratricida e il cui ricordo, a suo avviso, non avrebbe fatto altro che rinfocolare rancori nefasti.
Rilevante fu, a cavallo tra Otto e Novecento, la posizione di Benedetto Croce, che considerava il periodo della Repubblica napoletana, seppur molto breve, fondamentale per la nascita di una nuova identità italiana , insistendo soprattutto sul primato dell'elemento attivo, della minoranza pensante, di fronte alla “massa inerte”, pesante e riluttante, e inoltre riconoscendo che, dietro al movimento sanfedista, si nascondeva un sentimento di devozione alla monarchia e di amore e indipendenza nei confronti degli stranieri e delle leggi che cercavano di “imporre” . Croce, del resto - com’è noto -, riconduceva in larga misura la storia del Mezzogiorno d'Italia a quella del suo ceto intellettuale, giungendo a idealizzare i giacobini come una nuova aristocrazia, «quella reale, dell'intelletto e dell'animo» .
Antonio Gramsci, utilizzando lo stesso procedimento logico, si rammaricava dell'assenza “momentanea” di un'avanguardia intellettuale, proponendo una interpretazione delle insorgenze in chiave di lotta di classe fra contadini e borghesia. Secondo l'ideologo marxista «la città fu schiacciata dalla campagna, organizzata nelle orde del cardinale Ruffo perché la Repubblica [...] trascurò completamente la campagna da una parte, ma dall'altra, prospettando la possibilità di un rivolgimento giacobino per il quale la proprietà terriera, che spendeva la rendita agraria a Napoli, poteva essere spossessata, privando la grande massa popolare dei suoi cespiti di entrata e di vita, lasciò freddi se non avversi i popolani napoletani» .
Giorgio Candeloro respinse la «tesi della rivoluzione passiva, intesa nel senso puramente negativo della refrattarietà dell'Italia alla Rivoluzione o della non necessità della Rivoluzione in Italia per effetto della precedente opera del riformismo settecentesco» e la recuperò in chiave gramsciana, sostenendo che il giacobinismo italiano non aveva avuto la possibilità di realizzare « quell'alleanza tra città e campagna che era riuscito ad attuare in Francia nel periodo precedente il Termidoro» e che comunque il periodo rivoluzionario ebbe effetti positivi, consentendo «un ulteriore passo avanti della borghesia italiana nel suo complesso [...] la formazione di un movimento patriottico, che tende a spezzare rivoluzionariamente il vecchio ordinamento politico dell'Italia» .
Nel complesso, queste ipotesi interpretative finirono per ricondurre la storia delle azioni umane quasi esclusivamente all'acume o agli errori dei gruppi dirigenti, ignorando o togliendo valore alla partecipazione popolare e offrendo spiegazioni insufficienti delle insorgenze. In particolare, l'impostazione “classista” cercava invano di accreditare l'idea di una conflittualità sociale molto diffusa in tutta la penisola, che avrebbe sempre avuto gli stessi caratteri in presenza di popolazioni rette da istituzioni diverse, situate in contesti geoeconomici non uniformi e con tradizioni differenti.
Una spiegazione insoddisfacente fu offerta anche dalla storiografia nazionalistica, fra le due guerre, che vide nelle insorgenze soltanto preziose affermazioni di valori nazionali e, quindi, una reazione allo straniero invasore e non ai principi rivoluzionari, che avrebbero ricevuto migliore accoglienza se presentati in altro modo e in altra circostanza.
Negli ultimi trent'anni il peso della tradizione crociana, nella versione “rinnovata” dagli innesti gramsciani, ha continuato a stimolare l'attenzione degli storici sugli intellettuali e sul pensiero politico della Repubblica napoletana, ritenuta «un momento fondamentale non solo nella storia meridionale ma nella elaborazione della tradizione democratica italiana» . Anche per altre vie il giacobinismo napoletano ha suscitato interesse: «Gli espliciti o inconfessati sensi di inferiorità del meridionalismo storico potevano attingere alla "Repubblica dei martiri" consolazione e riscatto, speranze per l'avvenire. [...] Aneddotica delle "donne illustri", contadinismo populista e "perdute armonie" cittadine fra aristocrazia e "plebe", facevano e fanno del 1799 una inesauribile fonte di ispirazione letteraria» .
La recente riflessione storiografica ha analizzato in chiave comparata anche il fenomeno delle insorgenze, lette nel contesto dei mutamenti economici e sociali in atto in varie parti del Regno, dei violenti conflitti municipali provocati dal mutare delle gerarchie tradizionali e dello scontro culturale fra due realtà molto differenti.
Peraltro, il bicentenario della Repubblica napoletana del 1799 ha fatto registrare un notevole sviluppo di attenzione e di interesse per la letteratura politico-istituzionale relativa all’età rivoluzionaria e napoleonica, a livello centrale e periferico. Al riguardo, un vasto ventaglio di percorsi di studio e di ricerca ha consentito una rinnovata lettura dell’esperienza repubblicana, contestualizzata nel più generale ambito delle Repubbliche giacobine e, in particolare, del 1799 in Italia, sia sul versante rivoluzionario, sia su quello controrivoluzionario. In relazione alla Repubblica napoletana, tra i risultati più significativi è stato certamente il ridisegnato quadro di lettura degli avvenimenti del 1799 in provincia, nell’articolazione politico-istituzionale delle loro espressioni, talora anche con varie analisi comparative dei modi e delle forme assunti, nelle varie province, dalla veicolazione della nuova cultura politica e dal complesso conflitto politico-sociale che caratterizzò le intrecciate fasi della repubblicanizzazione e della derepubblicanizzazione. In questo variegato contesto, emerge chiaramente, comunque, un filo conduttore: la Repubblica del 1799, nonostante la sua breve e convulsa vicenda, non fu solo un episodio astratto, scollato da quello che oggi si definirebbe “Paese reale”, ma un momento fondamentale nell’elaborazione della tradizione democratica e liberale italiana, che avrebbe consegnato, grazie alla memoria degli esuli napoletani, all’Ottocento un nuovo linguaggio politico-comunicativo, un nuovo modo di intendere la “rivoluzione”, non più come astratta progettazione, ma come adattamento fattivo e pratico dell’istanza rivoluzionaria al contesto territoriale.
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