giovedì 4 luglio 2024

Personaggi. 31. Domenico Corrado

Domenico Corrado era nato a Potenza il 25 novembre 1782 da Francesco e Gerarda Colle, dedicandosi alla carriera militare e conseguendo il grado di capitano, con cui aveva servito anche negli scontri di Antrodoco, tornando poi a Potenza per coordinare una disperata resistenza ai monarchici nel 1821. L'azione del gruppo di Venita, Mazziotta e Corrado durò fin quando giunse il generale Roth, inviato dal governo per il ristabilimento dell'ordine: Roth, infatti, aveva avuto da Napoli ordini per il disarmo generale degli abitanti e per la costituzione di una Corte marziale permanente. 

Dopo le indagini, condotte tra febbraio e marzo del 1822, Roth li giudicò colpevoli e il 13 marzo 1822, al termine di un processo sommario, la Corte Marziale fece fucilare Giuseppe e Francesco Venita, incarcerando a Potenza Carlo Mazziotta, il tenente Francesco Giusti, Rocco Labella, Giuseppe Lagaria, i sacerdoti Eustachio Ciani e Giuseppe Larocca. 

Il 27 marzo 1822, Corrado, però, era riuscito a sfuggire e nascondersi in un suo terreno nelle campagne di Genzano, anche se fu alla fine arrestato nel suo podere di Gravina di Puglia, tradito da un contadino alle sue dipendenze e, arrestato dal capitano Vito Mennuni, fu condotto al carcere di Santa Croce a Potenza. La corte marziale lo giudicò colpevole di «associazione illecita prima e dopo il 24 marzo 1821, unione settaria, cospirazione dal mese di settembre 1821 in poi tendente a distruggere e cambiare il governo istigando gli abitanti di Potenza e degli altri paesi del circondario ad armarsi contro l'autorità reale». Fu accusato inoltre «di tentata rivoluzione nel giorno di sabato santo del 1821 per innalzare l'albero repubblicano nel comune di Tito e Vignola e di scorrerie a mano armata nelle campagne per sovvertire l'ordine e sabotare il governo». 

La sua condanna a morte fu eseguita pubblicamente il 10 aprile 1822, in piazza Sedile. Prima di dare da solo l’ordine al plotone di esecuzione, esclamò ad alta voce: «Compagni, io vo sereno alla morte per la fede, e solo vi raccomando di vendicare un giorno la causa della libertà!». Dopodiché, rivolto al plotone, comandò: «Mirate al petto, ma non mi sfregiate il viso!». Morì così lasciando la moglie, Francesca Manta, un figlio, Giovanni, di appena sei anni, e due figlie neonate, ma la sua tormentata vicenda continuò anche dopo la morte, con la moglie costretta a pagare al comune di Potenza, per conto del marito defunto, un debito di 147 ducati.

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