La gestione di un capoluogo non fu mai, nella tarda modernità del Mezzogiorno d’Italia, una cosa facile, tanto meno in una provincia così vasta e con problematiche così ampie e complesse come la Basilicata. Fin dall’inizio del Decennio napoleonico, infatti, Potenza si trovò improvvisamente “catapultata” in un ruolo che la cittadina basentana non era preparata a svolgere, per evidenti limiti strutturali e per le spese che una riconfigurazione urbana ed amministrativa avrebbe (come di fatto avvenne) comportato.
Analizzando Potenza dopo il 1820, emerge chiaramente come questi precondizionamenti influirono pesantemente sullo svolgimento dell’attività politico-istituzionale ed amministrativa, oltre che sui processi di sviluppo economico. Una «modernizzazione difficile» che investì tutte le energie del Decurionato e che, nel contempo, accelerò i processi di formazione della borghesia potentina, con stretti – e non sempre limpidi – intrecci familiari nell’ambito dell’amministrazione. Il decennio 1820-1830, infatti, fu un periodo vissuto all’insegna della difficoltà, tra imprevisti dettati dalle esigenze del potere centrale, lotte di potere all’interno della borghesia cittadina e oggettive difficoltà nell’adeguamento del progetto di città capoluogo. Città di “volontà”, più che pre-strutturata, Potenza visse un decennio di profondi mutamenti, contrassegnati dal cronico deficit del bilancio comunale, per cui ogni “imprevisto” finiva per essere percepito – e per essere, di fatto – come una vera e propria catastrofe per le casse comunali. Si pensi, ad esempio, che ancora il 10 novembre 1833 il sindaco Viggiani faceva riferimento agli eventi che avevano seguito la Rivoluzione del 1820-21 e che per Potenza segnarono una «triste epoca» sia dal punto di vista amministrativo che, soprattutto, economico, affermando: «nell’anno 1822 essendo giunti in questo Capoluogo le Imperiali, e Reali Truppe Austriache, la Comune a sue spese dovè somministrare le forniture, dimodoché erogò circa d. 3000, che deve ancor conseguire dalla Reale Tesoreria»Queste esigenze centrali, come anche la necessità, oggettiva, di costruire il capoluogo incisero notevolmente sull’attività amministrativa ed economica di Potenza, dove, peraltro, gli intrecci tra le famiglie più in vista si facevano di anno in anno sempre più stretti, con una rete “invisibile” che costituiva un establishment connotato da scarso, quasi nullo, turnover delle cariche istituzionali-amministrative. In effetti, dal percorso risultano, scorrendo i registri delle delibere, nomi ricorrenti di famiglie in vista, dai Viggiani ai Castellucci, dai Maffei ai Giambrocono, dagli Amati agli Addone. Molti di essi, per non dire tutti, gestirono l’amministrazione comunale per decenni, senza soluzioni di continuità, disinvoltamente spostandosi nell’organigramma decurionale e, ove ciò non fosse oggettivamente possibile, partecipando all’attività gestionale attraverso importanti appalti “pilotati”, da quello dell’acquedotto a quello, fondamentale e assai redditizio, delle opere pubbliche.
Eppure, in questo quadro “gattopardesco”, i problemi furono di fatto insormontabili, dovuti ai costi della gestione quotidiana, con cause e ritardi protrattisi per decenni, come, ad esempio, quelli relativi all’imposta fondiaria. Basti pensare che il 14 novembre del 1831 il Decurionato delegava Luigi Lavanga a rappresentare il Comune nella causa davanti al Consiglio d’Intendenza per la riscossione dell’imposta fondiaria non pagata dal comune stesso al Capitolo della Trinità dal 1813.
Una difficile modernizzazione, dunque, quella di Potenza, messa al banco di prova della gestione dell’attività del Capoluogo, un fattore di grande incidenza non solo rispetto al suo spazio e al suo assetto urbano, ma anche della sua identità in un percorso in cui la portata e l’incidenza delle scelte operate in età napoleonica sarebbero state più concretamente percepibili nel lungo periodo.
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