Tra i fattori che nel 1647-48 concorsero a connotare la Basilicata per un livello di lotta antifeudale ampiamente partecipata e diffusa sul territorio, nonché più duratura che altrove, nelle stesse province, fu certamente l’ancora marginale fragilità della presenza statale sul suo territorio, la debolezza strutturale della stessa organizzazione feudale (pur a fronte dell’enorme portata del suo irrobustito e diffuso potere), il gravoso stato di sofferenza del suo complessivo sistema universitario, peraltro su un territorio caratterizzato da una frazionatissima rete di piccoli luoghi abitati, ancora per oltre il 90% ricadenti in ambiti territoriali a giurisdizione feudale.
Del resto, come risulta efficacemente evidenziato nelle stesse Descrizioni del Regno più attente agli elementi identitari portanti dei territori provinciali, il contesto politico-istituzionale della Basilicata, ancora negli anni Quaranta del Seicento, e nonostante gli indirizzi perseguiti dal governo spagnolo di dotare le province di un’amministrazione istituzionalmente forte, il contesto politico-istituzionale della Basilicata risultava connotato da una robustissima presenza feudale non bilanciata da adeguata rete periferica del potere centrale, in modo particolare rispetto alle articolazioni relative ai comparti della giurisdizione civile e criminale e della difesa militare, mentre prevalente, fra le funzioni proprie assegnate alle province, era quella della fiscalità.
Un contesto provinciale, quello lucano, privo fino agli anni Quaranta del Seicento, persino di un’autonoma Udienza sul proprio territorio, nonché di città di particolare importanza strategica a governo regio. Assenza, dunque, di un’entità istituzionale, concreta e percepibile, referente di indirizzo unitario di governo del territorio, tanto più precondizionante alla luce della più generale mancanza, nel rapporto Centro-periferia, di un organismo di coordinamento politico, oltre che amministrativo, delle varie funzioni delegate periferiche, da ricondurre, per il periodo considerato, allo spazio e ai caratteri particolari della mediazione amministrativa nel Mezzogiorno, che era ben presente alla pratica politica del governo centrale, notoriamente attento a non oltrepassare le proprie sfere d’azione , nel rispetto proprio di quel particolarismo tradizionale che caratterizzava lo stesso terreno della conflittualità sociale.
Cosicché, in realtà provinciali come, appunto, la Basilicata particolarmente difficile continuò ad essere la coesistenza di esercizio dei vari poteri locali, largamente egemonizzati dalla robustissima rete feudale, prevalentemente connotata da media e grande signoria, in cui alcuni importanti complessi feudali esprimevano ancora situazioni di prossimità territoriale con stati feudali di altre province, concentrati tra le più grandi famiglie del Regno. A ciò si aggiunga la certo più marginale, ma peculiare, presenza della feudalità ecclesiastica, sia quella riconducibile a titoli vescovili, sia quella esercitata da ordini religiosi.
Si consideri, nel contempo, che eccezion fatta per pochi, più consistenti, centri abitati, ove la rappresentanza istituzionale universitaria era ufficialmente determinata dall’organizzazione cetuale in seggi, nella quasi generalità delle terre e città la nomina degli amministratori locali scaturiva, certo, dai parlamenti cittadini, che, però, di fatto si limitavano ad accettare quelli indicati dal barone nelle terre feudali o dal rappresentante del potere e centrale in quelle demaniali, che – come si è detto – erano numericamente ridottissime.
Inoltre, per la contemporanea, capillare, presenza di una peculiare struttura ecclesiastica quale la chiesa-azienda ricettizia, gli stessi locali capitoli clerali erano caratterizzati da assetti di governo fortemente corporativi, espressione di un clero particolarmente attento alla crescita della sua quota capitolare, oltre che interessato a conservare inalterato l’equilibrio dei poteri.
Cosicché, quasi ovunque, nei centri abitati lucani, oltre e accanto al robusto esercizio, diretto e indiretto, del potere baronale, poche altre famiglie, attraverso la presenza di propri componenti nel governo delle università e nei locali capitoli clerali ricettizi, continuavano a solidamente controllare gli stessi processi di elezione delle rappresentanze istituzionali di base, pur nel quadro di contesti a diffusa conflittualità sociale.
Si trattava, dunque, di un’ancor più peculiare dimensione di assetti di poteri periferici, oggettivamente funzionale alla conservazione di lungo periodo dello status quo, all’interno del quale solo marginalmente si era riusciti a scalfire nel tempo il più forte e incisivo potere feudale, verso il quale pur continui e via via più conflittuali si erano già in più occasioni manifestate posizioni e azioni condotte sia da parte degli amministratori locali, sia da parte dei capitoli clerali ricettizi, interessati, com’erano, i primi alla riduzione di pesi e prestazioni varie (dati i magrissimi bilanci universitari), i secondi, che guardavano a Napoli più che a Roma, a difendere con i denti i propri patrimoni e le proprie, autonome, prerogative statutarie.
La crisi, generale e locale, via via accentuatasi nei primi decenni del Seicento, vide moltiplicati i suoi effetti in una realtà socio-economica come la Basilicata, rendendo tra l’altro ancora più sofferente la condizione finanziaria delle Università, che, già caratterizzate da un “atrasso” pari al 53%, rispetto ad una media nel Regno di poco superiore al 37%, disponevano ormai di scarsissime entrate, per di più rivenienti per ben l’83% da tassazioni sui beni di prima necessità. Il che in aggiunta agli effetti delle varie forme di vera e propria offensiva feudale più intensamente esercitata in questa fase sul piano del diritto e sul terreno della pressione tributaria, diretta e indiretta, si tradusse presto in generalizzato stato di malessere economico e sociale dei microcontesti urbani e rurali, facendo assumere alla rivolta del 1647-48 in Basilicata dimensioni di largo trascinamento sociale e con prevalente dimensione di lotta antifeudale, ma che, come altrove, non riuscì a tenere insieme l’iniziativa e l’azione dei contadini con quella direttamente promossa e condotta dagli stessi amministratori locali.
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