Giovanni Darcio, il poeta venosino di cui ci occupiamo, nonostante viva ed operi nel pieno del Cinquecento, è un tardo umanista, elegante cultore di classici, un raffinato scrittore latino, di cui non è rimasta traccia in terra lucana.
Il suo nome ci viene recuperato e tramandato in epoche troppo lontane da lui, sicché è impossibile ricostruire la sua biografia, tranne che per quelle poche notizie derivanti dall'opera e, in particolar modo, dall'epistola dedicatoria che funge da introduzione e da premessa all'edizione dei Canes, pubblicati a Parigi presso Simon de Colines nel 1543.
Del poeta venosino è sconosciuta la data di nascita e quella di morte e anche la dizione del nome è incerta; le fonti ci tramandano, infatti, diverse grafie: Ioannes Darcius o Darchius; Joannes Darchius; Jean Darci o Darcci o Darces o D'Arces; Giovanni Darcio. Dal riferimento ai dedicatari dell’opera, si riesce però a ricostruire una qualche attività più precisa. I due ecclesiastici, che vengono chiamati a «proteggere» i Canes, sono Andreas Richer, della diocesi di Sens, vescovo di Calcedonia dal 9 gennaio 1542 e il Cardinale Louis de Bourbon de Vendôm vescovo di Laon, arcivescovo di Sens. Dalla data della nomina di Andreas Richer a vescovo di Calcedonia ricaviamo il termine prima del quale la dedicatoria non può essere stata scritta: attraverso questa informazione e le notizie che dà di se stesso Darcio, si può conoscere, con l'approssimazione di un anno, la data in cui egli lasciò Venosa per la Francia.
Egli è, quindi, partito da Venosa non prima del 1539, ma non più tardi del 1540. La poca distanza tra la partenza e la pubblicazione dell’opera, e insieme l’affermazione di aver aggiunto nel libro lavori giovanili indicano che l’autore maturò a Venosa sia la scelta dei temi sia le letture che gli offrirono il substrato culturale su cui operare secondo il canone umanistico-rinascimentale dell’imitazione. Dell’attività svolta prima della partenza per la Francia siamo informati dallo stesso Darcio: egli dichiara di aver praticato a Venosa l’insegnamento e di aver abbandonato poi la sua laboriosa provincia per potersi dedicare completamente a quegli studi, che, per le occupazioni della professione, non aveva potuto approfondire.
Darcio fece fortuna in Francia, non solo perché la sua opera viene pubblicata da uno dei più noti e attivi editori di Parigi, ma anche perché, come appare verosimile dai dati in nostro possesso, fu chiamato dal Cardinal di Tournon, uno degli uomini europei più influenti a quel tempo, a esercitare l’attività di aumônièr (elemosiniere, cioé amministratore delle rendite derivanti dalle elemosine). Non sono stati rintracciati dati biografici, che possano confermare l’ipotesi, ma la traduzione del De re rustica di Palladio Rutilio dal latino al francese apparsa a Parigi nel 1554 per l’editore Michel de Vascosan sotto il nome di Jean Darces, conservata in un esemplare mancante del frontespizio alla Biblioteca Nazionale di Parigi potrebbe essere elemento probante.
L’opera da cui Darcio si attendeva la gloria e la fama presso i posteri è il poemetto in esametri Canes, dedicato alla descrizione e all’osservazione dei cani. Si concentrano nell’opera, di chiaro gusto erudito, due interessi fondamentali del mondo di Darcio: l’amore per i classici e il desiderio di evasione nella natura. Tra il didascalico e l’aneddotico, il poema non è privo di spunti felici, ma certo rispecchia uno stile molto lontano dal nostro (non si dimentichi che anche Pascoli dedicò al cane una delle sue poesie latine): gli spunti più felici derivano dai momenti descrittivi, dalle aperture sul mondo della natura e dei sentimenti, dai ritratti efficaci d’ambienti preziosi.
Nella stessa edizione parigina dell’opera darciana, dopo i Canes, l’autore inserisce un lavoro giovanile, l'Epistola di Deidamia ad Achille, facendola precedere da un Argumentum in prosa. Dalla tradizione mitologica, Darcio riprende la vicenda di Deidamia, unita in nozze ad Achille, durante l’esilio forzato nell’isola di Sciro, e poi abbandonata e tradita dall’eroe, che, una volta giunto a Troia, prende prima come concubina Briseide, poi è in trattative di nozze con Priamo ed Ecuba per la figlia Polissena. La lettera di Deidamia ad Achille, sul modello delle Heroides di Ovidio, ripercorre le vicende amorose, il tradimento, ma alla fine, si scioglie in una preghiera amorosa: che l’eroe, almeno memore dell'amore che c'è stato tra di loro, delle promesse e della fedeltà che le aveva giurato, ritorni, altrimenti Deidamia vendicherà il proprio pudore violato suicidandosi.
FONTE: M. T. IMBRIANI, Appunti di Letteratura Lucana. Ventisette ritratti d'autore dal medioevo ai giorni nostri, Potenza, Consiglio Regionale della Basilicata, 2001, pp. 28-32 (con tagli).
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