giovedì 29 dicembre 2016

La Basilicata contemporanea. 17. Potenza postunitaria

Fin dalla prima metà del Settecento Potenza era ritenuta “una delle cittadine più progredite dell’allora provincia per il numero degli uomini di lettere e per le condizioni generali della sua popolazione”, seppur mal collegata con il resto della provincia e del Regno. Dunque, la scelta di Potenza capoluogo non fece che evidenziare politicamente la positiva impressione dei francesi per la cittadina arroccata lungo la collina, centro periferico ma già connotato da significative presenze d’ordine culturale.
Questa scelta avrebbe rappresentato un fattore determinante nella percezione stessa del contesto urbano, che non presentava specifici connotati non solo a livello d’esercizio di funzioni, ma anche di quadri istituzionali-amministrativi e socio-economici.
Nel Catasto provvisorio del 1813 vennero censiti ben 493 sottani di cui 45 in via Pretoria. Questi tuguri furono abitati fino alla prima metà del 900. 
La città di Potenza nel corso di tutto l’Ottocento  s’ingrandì molto, ma la maggior parte della gente continuò a vivere in condizioni miserevoli; scarsi continuarono ad essere gli scambi tra il capoluogo e i paesi dell’hinterland materano e i paesi del potentino sud-orientale.

“Abita la più gran parte del popolo in sottani in cui vi si scende per cinque, o sei gradoni, i quali non sono comodi né salubri, non sono ventilati, mancando la più gran parte di finestre. Non sono mantenuti con nettezza tenendovi i polli, il porco e spesso l’asinello. Il focolare è in un angolo, e qualche volta con cacciafumo, vi si bruciano legni selvaggi e sarmenti. Cause dell’insalubrità dell’aria. Angustia e succidezza delle case. Strade in parte anguste e immonde. Letamai alle mura dell’abitato. Cadaveri delle bestie, che si lasciano per ogni dove insepolte. Numerose stalle, e macelli tenuti senza nettezza. […] Nel centro abitato si fa uso di acque che sgorgano in pozzi scavati a una certa profondità […] sono fabbricati chiusi senza intonaco […] l’acqua ha un cattivo odore di chiuso, il sapore è salmastro e nausaoso”.

Dopo l’Unità la città di Potenza fu sempre più principale luogo d’espletamento di attività politico-istituzionali, sede del nuovo Consiglio provinciale oltre che del Consiglio comunale, particolarmente caratterizzati nei primi anni postunitari dai riflessi conseguenti alle modalità attuative del processo di unificazione nazionale. La Potenza dell’ultimo quarantennio del secolo impugnò, quindi, i vessilli della storia, del diritto e della cultura per difendere, da un lato, la visione – si direbbe politically correct – della classe dirigente, dall’altro una più obiettiva ricostruzione del puzzle storico, sociale ed economico dell’intera Basilicata. La città, sede anche dei nuovi uffici amministrativi, fu rappresentata nel Consiglio provinciale nel 1861 da Nicola Lombardi e nel Parlamento unitario da Saverio Rendina, eletto al primo turno. Nominato senatore, Rendina si dimise nel 1863. Nelle nuove elezioni risulto vincitore al ballottaggio Giuseppe D’Errico contro Emilio Petruccelli. Le classi dirigenti potentine del secondo Ottocento continuarono, del resto, seppur con modi e forme nuovi, quella “strumentalizzazione della storia” che era stata una delle direttrici della cultura d’età moderna espressasi nelle storie municipali del Regno e che la Basilicata, frantumata e periferica,
non aveva colto che in minima parte, compresa Potenza.
In tali primi anni unitari anche la città fu insistentemente minacciata da possibili assalti da parte dei briganti, per difendersi dai quali ospito i contingenti militari e la Guardia nazionale. Fra il 1862 e il 1863 vi svolse i suoi lavori la Commissione d’inchiesta sul brigantaggio. Già nel 1861, quando fece registrare al primo censimento unitario 16.036 abitanti, la città divenne altresì sede della sezione distaccata della Corte d’appello di Napoli, sempre più solidamente confermando il suo baricentrico ruolo istituzionale, per il cui adeguamento furono avviati i vari piani per la fornitura idrica e la rete fognaria, con ampliamento stradale e insediativo. Nell’ambito dell’intricata questione demaniale, con l’Unità furono quotizzati il bosco di San Gerardo e i demani Chiancale, Bandito, Bufala e Verderuolo, con attivo coinvolgimento di circa 260 contadini, ma intanto la stessa politica sociale cittadina, verso la quale particolare attenzione volsero Giacomo Racioppi, Emilio Maffei e Rocco Brienza, si andò riconfigurando su posizioni moderate. Di fatto le originarie posizioni risorgimentali si andarono dissolvendo, mentre l’operato politico si appiatti su posizioni moderate e filogovernative, dinamica accuratamente reinterpretata e rappresentata, negli anni settanta, dal sindaco Nicola Branca, fratello del più noto parlamentare Ascanio, che assunse anche posizioni protezionistiche. Continuavano a persistere, intanto, carenze immobiliari per abitazioni e uffici, oltre che precarie condizioni igieniche e sanitarie. Una condizione, questa, rispetto alla quale nel 1883, quando la popolazione raggiunse i 20.353 abitanti, fu approvato un incisivo piano regolatore per l’ampliamento cittadino, per nulla rispettato. A fine secolo si aggiunsero i riflessi della ben nota crisi economica generale, mentre si andava “dissolvendo” la classe dirigente più direttamente figlia delle tradizioni risorgimentali. Tra le nuove figure politico-istituzionali vi furono quelle di Francesco Saverio Nitti ed Ettore Ciccotti. 
Ai tradizionali ceti di possidenti e “imprenditori” cittadini all’inizio del XX secolo se ne andarono sostituendo di nuovi, che non solo avevano rilevato le proprietà dei precedenti, ma si erano anche distinti nel commercio, nell’imprenditoria, nel credito e negli appalti pubblici. 


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