domenica 14 ottobre 2018

Le “piccole patrie” e la (possibile) ricostruzione dell’identità nazionale

A proposito di A. BISTARELLI (a cura di), La storia della storia patria. Società, Deputazioni e Istituti storici nazionali nella costruzione dell’Italia, Roma, Viella, 2012, pp. 324 (in "Bollettino Storico della Basilicata", 28 (2013) ). 

L’idea di Nazione è un leitmotiv che ha attraversato tutte le celebrazioni, più o meno calibrate, del centocinquantenario dell’Unità d’Italia. Eppure, pochi sono stati gli incontri che hanno ricostruito e letto il contributo delle “piccole patrie“ locali dal punto di vista culturale. Si potrebbe, anzi, dire, che nel più generale contesto nazionale dell’«italianità» - citando il titolo di un interessante volume di Silvana Patriarca del 2010 -, il contributo culturale dell’associazionismo storico locale postunitario è stato poco esplorato. Eppure, partendo dalla Deputazione di storia patria sabauda, voluta da Carlo Alberto nel 1833, alla Giunta centrale per gli studi storici del 1934, passando per l’Istituto storico italiano creato nel 1883, varie istituzioni storiche furono preposte dallo Stato alla raccolta, interpretazione e tutela delle fonti e dell’identità storica locale. Esse hanno svolto un ruolo centrale nel processo di unificazione culturale del Paese, costantemente animati, come sottolinea il curatore del volume, dalla tensione tra libera ricerca ed uso politico della storia.
Il volume in esame in queste riflessioni riflette proprio, da vari punti di vista, su queste vicende, a partire dal saggio introduttivo di Paolo Prodi (Le ragioni di un convegno, pp. 9-14), che, introducendo il convegno del 17-19 maggio 2011 tenutosi alla Venaria Reale di Torino, evidenzia come Deputazioni e Società storiche abbiano avuto un ruolo forte di traino identitario, sia a livello geopolitico che sociale. Nel primo caso, esse hanno permesso «una forte attenzione alla storia locale, degli antichi Stati italiani e delle loro componenti e nello stesso tempo lo sviluppo di una coscienza nazionale; dal punto di vista sociale perché ha permesso nelle nostre cento città per la prima volta un dialogo tra diverse esperienze divaricanti dopo la conclusione dell’epopea risorgimentale» (p. 9).
Dal canto suo, Andrea Merlotti, parlando di Sfide e difficoltà di una celebrazione (pp. 15-21), quella del 2011, appunto, riprende i temi di Prodi, ma, nel ricostruire il centocinquantenario dell’Unità, rileva come il tema della rievocazione e della memoria dell’Unificazione si riconduca al tema di una possibile crisi del «circuito virtuoso fra storia locale, coscienza nazionale e valori civici» innescati dalla rete delle Deputazioni e Società di Storia patria (p. 21): ricostruire, appunto, le vicende di fondazione, evoluzione e ricerca degli Istituti storici nazionali nel corso di centocinquant’anni di storia unitaria deve, secondo Merlotti, riattivare questi circuiti per ricostituire dal basso una civicness più radicata.
In questa direzione si muove la prima sezione, “Istituti nazionali e primo cinquantenario” (pp. 23-114), nella quale sono compresi i contributi di Massimo Miglio (Dall’unificazione alla fondazione dell’Istituto storico italiano, pp. 25-44), Romano Ugolini (Il Risorgimento diventa storia. La genesi dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, pp. 45-58), Gian Maria Varanini (L’Istituto storico italiano tra Ottocento e Novecento. Cronache 1885-1913, pp. 59-102), Edoardo Tortarolo (I convegni degli storici italiani 1879-1895. Qualche nota documentaria, pp. 103-114). 
La seconda sezione esplora le vicende de “Le Deputazioni pre-unitarie” (pp. 115-186), partendo dalla Deputazione torinese, la cui evoluzione è esaminata da Gian Savino Pene Vidari (pp. 117-144), alla Società Ligure di Storia Patria, oggetto dell’analisi dell’infaticabile Dino Puncuh (Dal mito patrio alla “storia patria”. Genova 1857, pp. 145-166), all’analisi di Fulvio De Giorgi sull’organizzazione degli studi storici tra centralizzazione e autonomie tra Otto e Novecento (pp. 167-186). È pur vero che molti Stati regionali (cosa, questa, poco evidenziata in alcuni contributi) non avevano identità nazionali, configurandosi, piuttosto, come “Stati mosaico” – è il caso di Venezia, quasi contrapposta al suo territorio, o di Genova come «società mercantile», in cui lo sviluppo della “genovesità”, per così dire, era maggiore nelle comunità degli emigrati, o ancora nello sviluppo delle periferie pontificie contrapposto a Roma, “appiattita” sulla dimensione di Città del Papa. In altri casi (come quelli della Toscana, della Lombardia o del “capofila” Piemonte, come evidenziato da Pene Vidari), l’idea di “nazione” passava attraverso quella di «integrazione amministrativa», già sviluppatasi nel corso del Settecento riformatore e proseguita con maggiore decisione nel corso del XIX secolo.
Interessante, nell’ambito di questa discussione, risulta la sezione nella quale vengono ricostruiti assetti e vicende delle Deputazioni dopo l’unità (pp. 187-264): Renata De Lorenzo ha ripercorso la storia delle Deputazioni e Società di storia patria dell’Italia meridionale (pp. 189-232); Gilberto Piccinini, La Deputazione di storia patria per le Marche nei primi centocinquant’anni di attività (pp. 233-252) e, infine, Carlo Capra si è occupato de La Società storica lombarda: origini e vicende (1873-1915) (pp. 253-263). Eppure, questa sezione appare la meno sviluppata per informazioni e suggestioni per una definizione del senso attuale degli Istituti storici locali, nonostante nello stesso convegno di Venaria presidenti e soci delle diverse Deputazioni avessero portato i loro contributi, spesso di notevole rilievo (nonostante il curatore li citi in nota nelle sue considerazioni conclusive). Un’apposita sezione con i contributi della tavola rotonda avrebbe di certo approfondito il ruolo di Deputazioni e Società Storiche, specie quelle meridionali, comunque ben delineato nelle sue linee essenziali da Renata De Lorenzo, Presidente della Società Napoletana di Storia Patria. Se ne ricava, in un certo qual modo, un quadro appiattito sulle grandi Società Storiche napoletana e lombarda, tralasciando, nella mole di informazioni, che le Deputazioni e le Società locali hanno contribuito con studiosi ed opere di notevole rilievo. In effetti, il tema delle «piccole patrie», in funzione anticentralista, era già stato portato avanti da parte delle Società storiche, nel primo ventennio unitario, in special modo da storici pugliesi e napoletani: esso avrebbe, anzi, avuto consacrazione e superamento nella Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata di Giacomo Racioppi, che riassunse, appunto, il tema, pur scrivendo, per così dire, “fuori tempo massimo” e nella grandiosa Storia del Regno di Napoli di Benedetto Croce, che nel 1924 volle, per citare le parole di Giuseppe Galasso nella prefazione alla ristampa del 1992, ricostruire «la storia di un paese identificata con quella della nazione che vi si formò [...], lo stretto intreccio con la storia italiana» e quella europea.
La sezione conclusiva del volume, “Gli Istituti storici stranieri a Roma” (pp. 265-300), comprende i contributi di Rudolf Lill (Gli Istituti storici austriaco e prussiano a Roma, pp. 267-284) e di Jorge García Sánchez (La Real Academia, la Escuela Española e Rafael Altamira: esempi della rappresentazione culturale della Spagna in Italia, pp. 285-300). In realtà, pur apparendo quasi avulsa dal tema del volume, essa risulta di un certo interesse nel ricostruire l’intreccio tra storia nazionale e storia “globale” sul territorio del nostro Paese, con “epicentro” nella capitale.
Le riflessioni conclusive del curatore degli Atti, Agostino Bistarelli (La storia patria oggi, pp. 301-309), pongono alcune domande cruciali che sottendono il volume, senza, tuttavia, essere quasi mai esplicitate dopo le affermazioni introduttive di Prodi. Quale sarebbe, oggi, il senso di questi Istituti per ristabilire il senso identitario di un’Italia troppo divisa e sradicata dal suo essere? È ancora possibile un uso politico “buono” della Storia? 
Il recupero della memoria storica, tra identità sommerse e identità recuperate lungo questi centocinquant’anni di vita unitaria, resta, oggi più che mai, compito non delle grandi istituzioni centrali, quanto, piuttosto, delle Società Storiche e delle Deputazioni: l’ancoraggio sul territorio, il legame con le tradizioni e l’identità locale, in rapporto con i contesto più generali, permettono, infatti, a queste istituzioni di recuperare una dimensione civile della Storia. La progressiva attenzione verso le province operata dalle istituzioni locali, in effetti, corrisponde all’allargarsi del rapporto tra centro e “patria locale” e restituisce una dimensione più ampia alle appartenenze regionali, che in età preunitaria corrispondevano a diverse “nazioni”. Appunto, nazioni come prodromi delle “identità locali” ed espressione di un sentire comune, una costruzione in cui si riconoscessero i ceti dirigenti che, dopo l’azione politica risorgimentale, si rivolsero alle carte per ricostruire il formarsi della nazione a partire dalle periferie, prima che dal centro. 
Il nation building operato anche da Deputazioni e Società storiche, dunque, smentirebbe il mito negativo secondo il quale l’Italia non avrebbe avuto momenti di costruzione nazionale se non dopo l’Unità: questi Istituti, in effetti, contribuirono e possono ancora contribuire a costituire una presa di coscienza, recuperare il percorso postunitario secondo il quale la coscienza storico-identitaria passava attraverso il collante rappresentato dallo Stato unitario, che avrebbe amalgamato, a livello sociale e strutturale, le “piccole nazioni”. Oggi il problema è, come efficacemente premette Simonetta Buttò nell’introduzione al volume, che questi Istituti si aprano al nuovo, ai giovani studiosi, alle nuove tecnologie, non confinandosi più «nella dimensione, tutto sommato passiva, della conservazione del patrimonio e della sua fruizione, della fornitura di quello che viene richiesto, ma guardando avanti alla produzione di cultura e alla sua trasmissione» (p. 8). È questo, dunque, il senso di Società, Deputazioni e Istituti storici oggi, ossia l’uso politico della Storia nel senso più nobile: contribuire a ricostruire l’identità nazionale attraverso il coinvolgimento, una volta ancora, delle piccole patrie locali, dei “mattoni” base dello Stato, i cittadini. Uscire dal chiuso dell’Accademia e parlare, ancora una volta, ai cittadini con un linguaggio più accessibile potrà permettere al mestiere di storico di avere ancora un senso civico, quale lo intesero personaggi di rilievo come Tabacco, Falco, Bonghi, Capponi, Cipolla, Schipa, Croce, Racioppi, Fortunato.

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