Il volume di Giuseppe Caridi segue le vicende biografiche del sovrano borbonico inserite nella realtà politica, socio-economica ed ecclesiastica del Mezzogiorno d’Italia e della Spagna del secolo XVIII. Carlo acquisì la necessaria esperienza di governo durante la venticinquennale permanenza sul trono di Napoli.
È indubbio che solo con il regno di Carlo il governo napoletano, i suoi sovrani, i suoi ministri, iniziavano ad agire come una corte indipendente. L'avvento di re Carlo significava, per i napoletani, ben più di un cambiamento di dinastia. Era, con il nuovo re, la restaurazione dell'antico regno, dopo secoli di dominazione straniera. I governi che si erano succeduti nel primo trentennio del secolo, erano governi stranieri, distolti da preoccupazioni estranee e lontane. Il nuovo re era venuto anche lui dal di fuori; ma non come dominatore straniero. Le speranze dei napoletani si accendevano: "grazie a Dio, non siamo più provinciali". Spettava alla nuova dinastia nazionale il compito di rendersi interprete della nuova realtà e delle sue esigenze.
La vittoria borbonica e la formazione di una monarchia indipendente costituivano una svolta decisiva per Mezzogiorno. Ed al nuovo re guardavano i regnicoli, dagli intellettuali agli ecclesiastici, dai togati ai nobili, fiduciosi nella rinascita dello stato e nell’avvio di una politica di riforme, ispirata ai modelli culturali d’oltralpe. In tale ottica il 1734 segnò uno spartiacque, un punto di non ritorno nella storia del Mezzogiorno d’Italia, che vide il fattivo impegno di tecnici e di ministri, spagnoli e toscani, nella compagine governativa. Fra le iniziative commerciali per sollevare il Regno dalle difficili condizioni economiche, Carlo istituì la Giunta di Commercio, intavolò trattative con turchi, svedesi, francesi e olandesi istituì una compagnia di assicurazioni. Prese inoltre provvedimenti per la difesa del patrimonio forestale e cercò di cominciare a sfruttare le risorse minerarie, istituì consolati e monti frumentari.
Le riforme nel Mezzogiorno furono possibili grazie proprio alla collaborazione fra la dinastia e gli uomini di cultura quali, ad esempio, Giambattista Vico e Pietro Giannone. Napoli, pur non essendo il centro economico principale del Regno - a causa di una struttura economica fragile -, divenne una grande capitale europea, sia come centro culturale, sia come esempio di cooperazione politico-intellettuale.
Comunque, malgrado fosse animato da buona volontà, l’entourage carolino non aveva un disegno organico d’intervento, e quindi, era ostacolato dall’asse di un programma unitario e coeso. Si declina, quindi, una discrepanza tra teoria e pratica, ovvero, tra riforme che rivestono, quindi, inadeguate al contesto al quanto arretrato e lontano dal rinnovamento. Confrontato nei suoi risultati con quello asburgico di Milano o di Firenze, il riformismo carolino appare meno organico e perciò scarsamente incisivo nei tentativi di abbattere le preesistenti strutture corporative. La consapevolezza di aver vissuto un «tempo eroico», come lo definì Bernardo Tanucci, fu più profonda e amara di fronte alla crisi, quando, agli inizi degli anni Quaranta, apparve chiaro che le migliori occasioni offerte da quell’irripetibile “momento magico” erano ormai da considerarsi perdute.
Nella penisola iberica il sovrano - mantenendo sempre stretti rapporti con il toscano Bernardo Tanucci, grande personalità culturale e politica, suo principale consigliere nel governo napoletano - seppe circondarsi di collaboratori fedeli e capaci, sia stranieri che nazionali, da Wall a Squillace e Grimaldi, da Campomanes ad Aranda e Floridablanca. Durante il governo di quest’ultimo, le cui iniziative Carlo III assecondò con convinzione, si intensificò nella politica interna spagnola l’attività riformatrice nel quadro di un assolutismo monarchico sempre più ispirato a princìpi illuministici, comunque compatibili con il paternalismo che distinse sempre l’operato del capostipite dei Borbone di Napoli.
Quello di Carlo fu, certamente, assolutismo illuminato che oggi potrebbe configurarsi come “paternalismo” (si narra che amasse dire che «le ricchezze dei re sono fatte per i poveri»), ma il giudizio storico non può prescindere dal contesto dell’Europa continentale della prima metà del Settecento, dalle condizioni degli altri Stati italiani, dalle concezioni e dottrine economiche dell’epoca, dall’arretratezza culturale di molti altri sovrani europei. E, in riferimento all’epoca, il regno di Carlo è da considerarsi “rivoluzionario” e volto al progresso dello Stato inteso, per la prima volta, come collettività, e tale fu percepito dall’intellettualità regnicola.
Notevole fu, con tutti i suoi limiti, la profonda riforma dello Stato, a cui proprio Carlo aveva restituito l'indipendenza, da lui attuata con la collaborazione del valente ministro Tanucci, con il quale attuò una politica anticurialistica e promosse la riforma dei tribunali. Furono raggiunti importanti risultati, con la soppressione di molti abusi e la possibilità per i contadini di cominciare ad affrancarsi dalla tirannia dei baroni, e di poter raccogliere e seminare nei terreni demaniali la manomorta.
In questo ambito, il punto di arrivo della dinastia borbonica sarebbe stato, centocinquant'anni dopo, completamente in rotta con le premesse del suo fondatore. Le polemiche che hanno caratterizzato la celebrazione dei centocinquant'anni dell’Unità d’Italia, infatti, si sono spesso focalizzate sul crollo del Regno delle Due Sicilie e sulla fine dei Borboni. Un fronte antirisorgimentale giustizialista, alla ricerca di colpevoli e di complotti, ha oggi la presunzione di scrivere ciò che gli storici di professione non avrebbero mai scritto o avrebbero volutamente occultato. Renata De Lorenzo, partendo proprio dal confronto con le mitologie correnti, ha recentemente proposto, con il volume Borbonia felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, una rilettura attenta delle dinamiche interne ed esterne al contesto meridionale che dal post- 1848 al 1861 hanno messo in crisi i modelli culturali di una dinastia e della “nazione” napoletana. E ricostruisce la fine del Regno borbonico, facendo il punto sulle contraddizioni e le complessità della vita politica, della società dell’economia del Mezzogiorno alla vigilia dell’Unità.
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