Su Evemero abbiamo pochissimi dati. Nato a Messene, probabilmente l’odierna Messina, intorno alla metà del IV secolo a.C., orbitò nella corte di Cassandro, figlio di Antipatro, il generale di Filippo II di Macedonia che Alessandro aveva nominato reggente in sua assenza. Alla morte di Antipatro, nel 316, Cassandro si nominò re di Macedonia, dopo essere stato reggente in nome del figlio di Alessandro, che fece eliminare per assicurarsi il trono.
Evemero divenne così uno dei “sodali” o eteri del nuovo sovrano, svolgendo mansioni militari e diplomatiche: secondo la tradizione, Cassandro lo incaricò di effettuare dei viaggi di esplorazione nella zona del Golfo Persico, partendo dalla penisola arabica. Il viaggio dovette collocarsi senz’altro prima del 297, data della morte di Cassandro, e da esso Evemero trasse spunto per comporre un’opera dedicata appunto al sovrano macedone. Dopo questa data, non abbiamo altre notizie dell’autore.
Evemero fu famoso, nell’antichità, per la sua opera intitolata Scritto Sacro, in 3 libri, di cui restano 26 frammenti. Lo Scritto aveva la forma, ormai consueta dopo la pubblicazione di numerosi resoconti di viaggio degli alessandrografi, di una descrizione geo-etnografica abbinata a riflessioni di tipo, appunto, etnografico e sociale, come nella Navigazione dell’India di Nearco, ammiraglio di Alessandro.
Grazie al compendio in Diodoro Siculo (V 41-46 e VI 1) ed ai numerosi frammenti della traduzione di Ennio (Euhemerus), abbiamo un’idea piuttosto completa del contenuto di questo scritto particolare, probabilmente diviso in tre libri, come si è detto, rispondenti alla descrizione geografica (I), politica (II), teologica (III).
Nel I libro, Evemero raccontava di essere partito dall’Arabia per dirigersi in esplorazione nell’Oceano Indiano. Persa la rotta, la spedizione approdò in vista di un arcipelago di cui l’isola principale era Pancaia o Iera.
Seguiva una descrizione dei mirabilia dell’isola, notevole per i suoi aspetti naturali e per le particolari usanze religiose degli abitanti. Iera-Pancaia, un’isola sacra ricca di alberi di incenso ed altre essenze vegetali adatte ai sacrifici ed ai riti religiosi, era larga quasi 36 chilometri, ed aveva a poca distanza un altro isolotto che fungeva da cimitero reale.
I Pancei erano non solo indigeni, ma anche di provenienza orientale, come Oceaniti ed Indiani, nonché Sciti e Cretesi, quindi popoli di grande saggezza, ed abitavano nella capitale, Panara, che aveva leggi proprie e non era retta da un sovrano, ma da tre magistrati annuali, che si occupavano della giustizia ordinaria coadiuvati dai sacerdoti.
A 10 chilometri da Panara era stato eretto, in una pianura, il tempio di Zeus Trifilio, ossia delle tre tribù primitive dell’isola, i Pancei, gli Oceaniti ed i Doi. La zona del tempio, descritta con dovizia di particolari, era ricchissima di flora e fauna, così come notevole era il tempio, lungo 60 metri ed al quale si accedeva tramite un viale lungo 720 metri e largo 30. Dominava la piana il monte Olimpo Trifilio, sede dei primi abitatori dell’isola e di osservatori astronomici naturali.
Oltre a Panara, l’isola aveva come città notevoli Iracia, Dalis ed Oceanis.
Evemero doveva poi dedicare il II libro alla descrizione della politeia, della costituzione e della società di Pancaia.
La società era tripartita: alla prima “casta”, quella dei sacerdoti, spettava la direzione degli affari pubblici e delle controversie giuridiche. La seconda “casta”, degli agricoltori, si occupava della lavorazione della terra e dell’immagazzinamento dei prodotti per l’uso comune: come incentivo al lavoro, i sacerdoti stilavano una classifica dei più meritevoli, il primo dei quali riceveva un premio. Ultima casta era quella dei soldati, che, stipendiati dallo Stato, proteggevano il paese vivendo in accampamenti fissi e tenendo lontani i briganti che, in una zona del paese, attaccavano gli agricoltori. Principale arma da guerra, come nella Grecia omerica, era il carro.
Seguiva poi, nella descrizione della società, un’ampia sezione dedicata ai prodotti metalliferi dell’isola ed ai costumi dell’abbigliamento dei Pancei.
Il III libro, infine, svolgeva l’argomento da cui l’intera opera traeva il nome e lo scopo “politico”: la religione ideale dei Pancei.
Ritornando alla descrizione del tempio di Zeus Trifilio, Evemero descriveva brevemente il culto tributato agli dei dai Pancei e la struttura interna del tempio, nel quale era posta una stele d’oro che recava iscritte, in geroglifici, le imprese degli dei che i sacerdoti cantano negli inni e nei riti divini.
Secondo la casta sacerdotale di Pancaia, gli dei erano nati a Creta ed erano stati condotti a Pancaia dal grande re Zeus, di cui Evemero narra la genealogia e le imprese. Dopo essersi dilungato ad esporre le complesse trame di potere che portarono Urano a divenire il primo re del mondo abitato e ad essere onorato per la sua conoscenza dell’astronomia come dio del cielo, Evemero riporta che Crono, figlio minore di Urano, spodestò il legittimo erede, il fratello Titano, dopo una guerra e, sposata Rea-Opis, sua sorella, generò Zeus, Era e Poseidon.
Ultimo gran re fu appunto Zeus, figlio di Crono, che liberò fratelli e zii dalla prigionia in cui Crono li aveva costretti e, con diversi matrimoni, si assicurò una numerosa discendenza. Assicuratasi l’alleanza con Belo, re di Babilonia, Zeus conquistò poi la Siria e la Cilicia, nonché l’Egitto, dove ricevette il titolo onorifico di Ammone e con questo nome vi venne onorato sotto le spoglie di un ariete, poiché in battaglia indossava un elmo aureo ornato appunto da corna d’ariete.
Percorsa cinque volte la terra e beneficatala con i semi della civiltà e della religione, Zeus, in tarda età, prima di morire, condusse appunto a Pancaia i suoi discendenti, ai quali lasciò compiti specifici di governo: suo fratello Poseidon governò i mari ed i percorsi marittimi, così come Ade si occupò dei riti e dell’amministrazione dei morti ed Ermes presiedette all’alfabetizzazione ed alla diffusione della cultura. Morto Zeus, che aveva fatto incidere su una stele d’oro le imprese sue e dei suoi avi, gli fu eretto un tempio, appunto di Zeus Trifilio, ed Ermes incise sulla stele le imprese dei suoi discendenti, che come lui sono onorati come dei dagli uomini per le grandi imprese compiute.
L’opera utopistica di Evemero, come si è visto, si imperniava quindi su due concetti fondamentali: innanzitutto, la descrizione, secondo il grande modello platonico, di una società ideale, basata sull’interazione tra uomo e natura, senza sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali ed umane, ma anzi con un’equa ripartizione dei compiti, e sulla possibilità, per un sovrano di ricevere onori divini se attento a beneficare, più che a sfruttare, i suoi sudditi.
In tal modo, Evemero si ricollega all’utopismo ellenistico di cui abbiamo altri notevoli esempi, ma al contempo lo storicizza: con la sua opera non solo offre un modello di società organizzata e in cui il lavoro è perfettamente e sistematicamente ripartito, ma offre la legittimazione teorica del culto divino tributato ai sovrani, che già all’epoca di Alessandro aveva suscitato scalpore. Evemero, in linea con quanto si andava affermando sul modello teocratico di tipo orientale, legittima il culto divino del re come salvatore e benefattore, non allontanandosi, però, eccessivamente dall’ortodossia, anzi riconoscendo come divinità le forze della natura. Quindi ad Evemero premeva non tanto la spiegazione razionalistica del mito, quanto la legittimazione di un uso politico in costante ascesa nell’epoca ellenistica.
Fu però l’intento razionalistico a prevalere nella lettura della sua opera e a decretarne la conservazione in autori posteriori. La spiegazione del divino presente nello Scritto Sacro ebbe poco seguito nell’ambito della cultura antica, scatenando anzi numerose polemiche in un senso o nell’altro, come il rifiuto, ad esempio, di Callimaco nell’Inno a Zeus o l’ammirazione di Ennio, che tradusse e rielaborò l’opera, probabilmente dedicandosi soprattutto al III libro. Tuttavia, con tutte le riserve suscitate, la spiegazione “evemeristica” restò l’unica sistematica sugli dei nell’antichità e venne quindi ampiamente utilizzata negli apologisti cristiani come Lattanzio, Tertulliano ed Eusebio, che così trasmettono numerosi frammenti dello Scritto.
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