giovedì 6 febbraio 2020

Il Mezzogiorno moderno. 8a. L'antico nella cultura del 1799

1. Cercare nel passato la molla per migliorare il presente, ripensando forme e ruoli del governo della città alla luce di ideali esperienze politiche antiche, diventò, già nel convulso decennio compreso tra 1789 e 1799, un assillo che, dai grandi maestri, giungeva ai giovani studenti delle province che nella Capitale del Regno si riunivano, assimilavano, tentavano di mettere in pratica gli insegnamenti teorici per farne il pilastro di un nuovo modo di gestire la cosa pubblica e di capire se e come fosse possibile salvare la forma monarchica. Fu una parabola discendente che si espresse non solo nei fatti ma, innanzitutto, nelle forme comunicative, come evidenzia la ricerca sinora svolta su pamphlet, opuscoli a stampa e scritti di vario genere che coprono il periodo che va dal 1780 al 1799. Il terreno sul quale l’uso dei simboli si fece più massiccio fu dato dalla comunicazione verso il popolo e dall’uso, comunque, di simboli eroici e/o devozionali; uso massiccio, certo, ma anche e soprattutto “alto”, volto ad influenzare i centri decisionali e le classi dirigenti, se è vero che, come rileva Hans Biedermann, «ogni uomo possiede una propria mitologia ed eleva al rango di simboli determinate persone, reali o mitiche». 
Va innanzitutto detto che è proprio su questo terreno che rivoluzione e controrivoluzione dispiegarono più mezzi e con più intensità. Forse è questo il campo nel quale lo scontro ideologico ha favorito maggiormente la controrivoluzione e ha dato ragione alla tradizionale interpretazione di Cuoco dello scollamento tra quello che oggi si definirebbe “paese reale” e le ideologie rivoluzionarie. 
Si nota, infatti, una netta contrapposizione tra due ideali eroici: quello rivoluzionario, laico e “alto”, ispirato al modello classico, contro l’ideale controrivoluzionario, “basso” e legato alla devozione popolare. 
Il modello rivoluzionario fu, come noto, quello alto, legato alla cultura classica ed alla simbologia giacobina francese, che si esplicitò soprattutto nell’uso del simbolo storico. Simbolo “importante”, che aveva, comunque, un robusto referente nell’alveo dell’erudizione settecentesca e dalla grande lezione vichiana, ravvivata dalla discussione che, proprio nei mesi convulsi della Repubblica, produsse numerosi pamphlets sull’utilità e sull’uso della storia per la formazione di una coscienza repubblicana, riprendendo un tema ampiamente diffusosi negli anni Novanta del Settecento e che, sulla scia di Cabanis e Pagano, avrebbe influenzato non poco anche il successivo dibattito degli esuli napoletani nella Cisalpina. Sulla base della riflessione esemplare sulla storia, emersero, dunque, nel contesto napoletano, numerosi simboli “autoctoni”, riconducibili, allo stesso tempo, alla matrice francese, tra i quali vanno esaminati, in questo contesto, almeno due: l’eroe (e il suo alter ego, il tiranno) e la sirena. 
L’eroe, secondo una recente definizione, è «chi è in grado di sentire il “bisogno di credere”». Vale a dire che in questo periodo, accanto al tradizionale eroe classico, vennero poste in risalto dalla pubblicistica e dalla propaganda figure nelle quali individuare certamente personaggi d’eccezione, ma che erano tali poiché la loro eccezionalità era posta al servizio di una causa. Tre elementi specifici definirebbero questo simbolo: Il soldato che serviva una causa come «l’immortal Championnet»; L’uomo di potere che non prevarica la causa per cui serve, ma sa ritirarsi al momento giusto, come appare, sempre per quanto concerne Championnet, nella lettera, riportata nel «Monitore», con il quale si congedava da Napoli. Emergeva, in questo caso, la potente suggestione del modello classico, specie del Timoleonte plutarcheo, ritiratosi una volta esaurito il suo compito di liberatore di Siracusa dalla tirannide; il privato volto alle cure domestiche, che vedeva l’azione politica come ampliamento di questo suo compito primario. Evidente, anche in questo caso, la radice classica di questa caratteristica, che rinviava alla narrazione liviana su Cincinnato. 
In tutti e tre i casi, si trattava, ovviamente, di un simbolo civile, concreto, che risultava armonizzare l’individualismo, il sociale e la storia. Si trattava, ovviamente, poiché di simbolo concreto stiamo parlando, di un’armonia contrastata e mai compiuta. Altro esempio “eroico”, prodromo della cosciente mitizzazione dei “martiri repubblicani” operata, in seguito, nel Rapporto lomonachiano e, attraverso esso, nel Saggio di Cuoco, fu quello del “protomartire” della rivoluzione, lo studente Emanuele de Deo, morto per le sue idee durante la repressione della congiura giacobina del 1794. Proprio durante il semestre repubblicano, ai “martiri” del ‘94 e della Repubblica venne dedicata una colonna sulla cui iscrizione De Deo era designato esplicitamente come “Primo Martire della Libertà”. In quest’ottica, Luigi Rossi compose un breve poemetto in endecasillabi sciolti che, significativamente fondendo le istanze simboliche e la “moda” ossianico-sepolcrale, si intitolava proprio allo studente di Minervino Murge, celebrato come una sorta di novello Prometeo, immolatosi per la diffusione del “verbo” rivoluzionario. In significativa connessione con l’albero della libertà, De Deo ritornava, quale simbolo ormai “topico” - dunque, una sorta di protomartire repubblicano, come si è detto - anche in un pamphlet sul simbolo di Giuseppe Albarelli.
All’eroe, in significativa contrapposizione “plutarchea”, si opponeva il tiranno, specchio “nero” di “virtù degeneri”. Notevole, come in Francia, l’abbassamento del sovrano a semplice uomo, con un’insistita rilevanza sui suoi vizi e difetti e la ripresa della denominazione “Capeto” per indicare la casa reale, che risale alla pubblicistica francese ed alla sua diffusione in Italia nel triennio giacobino. In Francia, l’indicazione di Luigi XVI con il semplice nome della casata (dai Capetingi, per via indiretta, discendevano le dinastie regie dei Valois, degli Orléans e dei Borbone) indicava una precisa volontà di abbassare il sovrano al livello di semplice cittadino. Questo appellativo, dunque, andava a connotare i misfatti della dinastia, con riferimento soprattutto alla fama di inetti per i sovrani e di virago per le sovrane, ripresa nell’ode di Jean-François de Laharpe dedicata a Maria Antonietta, che Francesco Lomonaco avrebbe riportato con una traduzione-rielaborazione significativamente riadattata a Maria Carolina. Questo vero e proprio “marchio d’infamia” si diffuse capillarmente nella pubblicistica repubblicana delle province, spesso connesso all’indicazione dell’origine straniera, “imposta”, della casata dei Borbone. Ad esempio, il proclama ai materani del commissario repubblicano Francescantonio Ceglia (commissario del Bradano) iniziava con la semplice, “francese”, denominazione di “Ferdinando Capeto”, legata, quasi per antonomasia, alla figura del tiranno. Del resto, la connotazione negativa dei reali, che Francesco Lomonaco avrebbe ripreso - con uguale virulenza – nel suo Rapporto al cittadino Carnot, era ampiamente diffusa nella pubblicistica repubblicana, come mostrano alcune composizioni in versi. 
Last but not least, il recupero del tradizionale simbolo della sirena Partenope e del fiume Sebeto che, nella storiografia napoletana, indicavano la tradizionale libertà ed autonomia della Napoli greco-romana. Il recupero del Sebeto e della figura della “fondatrice” di Napoli da parte dei “patrioti” indicava la volontà di marcare l’ancoraggio con le origini “autoctone” della città. Appare significativo l’uso, ancora in quest’epoca, del mito come mezzo primario per l’affermazione dell’identità cittadina.  
All’interno della complessa società napoletana, infatti, fin dal Cinquecento la scrittura mitologica andava a rappresentare una pratica che man mano diventava comune, in quanto con il personaggio mitico si tentava di dare un volto ad un unico codice civico. Il simbolo mitologico veniva “pilotato” dalla città che mirasse ad una sua egemonia, in cui le doti morali estrapolate dal mito o dalla narrazione leggendaria diventavano doti politiche tipiche della città, o del gruppo dirigente, o della famiglia che commissionava l'opera allo storico. 
Se il Santo era figura tangibile, visibile parlare di una città depositaria di virtù elevate che la accostavano a Dio, l'eroe non era però da meno, in quanto fondatore umano della città, depositario di virtù pratiche, attive che costituivano una sorta di marchio del comportamento della città verso i poteri temporali. 
La sirena Partenope, figura eponima della capitale, va quindi intesa come iconotropia, ossia interpretazione di un antico simbolo piegato agli usi letterari e, soprattutto, politici: le virtù morali dei mitici fondatori diventavano virtù politiche, segno tangibile ab initio della lealtà politica di un corpo civile direttamente geminato dal suo fondatore. Giovanni Antonio Summonte e la sua Historia della Città e Regno di Napoli si situarono all'inizio di quest’uso consapevole del mito come bandiera propagandistica e strumentale alla rivendicazione del pactum con i sovrani spagnoli e che, nel 1799, ebbe il suo punto d’arrivo e d’esaurimento. 
Si può affermare che la controrivoluzione, sia pure con un sapiente uso della tradizionale comunicazione per immagini destinata al popolo e di sicura presa, fallisse sul terreno dell’uso di simboli e metafore classiche per comunicare l’ideologia restauratrice alle classi medio-alte, producendo prodotti ugualmente improduttivi, ibridi tra linguaggio “devoto” e figurazioni classiche.  

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