domenica 21 ottobre 2018

Materiali didattici. 34b. L'Archivio Storico per le Province Napoletane online

Edizione digitale dei numeri dal 1876 al 2013 reperibile al link:

http://www.storiapatrianapoli.it/it/156/edizione-digitale


Personaggi. 20a. Giovan Battista Scalfati (Claudia Pingaro)

La lunga vita di Giovan Battista Scalfati – novantadue anni intensamente vissuti – fu in gran parte dedicata alla riflessione illuministica e riformatrice che nel corso del secolo XVIII coinvolse gli studiosi nel dibattito filosofico e culturale tout court. Molti tra gli esponenti dei ceti dirigenti europei – con gradualità e modalità differenti da Stato a Stato, da regione a regione, da provincia a provincia, da città a città – grazie all’impegno profuso da un lato nell’attività speculativa e dall'altro nella pratica politico-amministrativa, sovvenzionarono, spesso, anche la produzione letteraria contribuendo alla propria “metamorfosiˮ e rimuovendo, via via, l’idea dell’arbitrarietà legata al privilegio. Nell’evoluzione tutt’altro che facile, piuttosto complessa e articolata, del protagonismo nobiliare europeo nel XVIII secolo Giovan Battista Scalfati occupa un ruolo non marginale. Riuscì, fuor di dubbio, ad essere protagonista di un mondo in cui le trasformazioni e i mutamenti rappresentarono il prodotto di un tempo storico “illuminato” dalla ragione e intriso del desiderio, da parte di molti, di concorrere efficacemente allo sviluppo di quell’universo culturale. La vicenda intellettuale e umana di Scalfati, dunque, percorre l’intero arco temporale del XVIII secolo e ha il sapore di una traversata conradiana in un mare denso di difficoltà e contraddizioni dove si rincorrono i motivi di un’esistenza segnata sia dalle vicissitudini famigliari, sia dall’amore per gli studi. La biografia di Giovan Battista Scalfati è simile a quella di tanti “intellettualiˮ e riformatori meridionali che elaborarono un “progetto politicoˮ analizzando dapprima la realtà economico-sociale del Mezzogiorno, aderendo poi alla fiorente stagione riformatrice degli anni Ottanta del secolo XVIII e condividendo, infine, la scelta rivoluzionaria del 1799. Per Scalfati e per molti di questi protagonisti l'adesione alla Repubblica Napoletana del 1799 e le funzioni politico-amministrative svolte all'interno delle neonate istituzioni rivoluzionarie (le Municipalità erette in tutte le Università meridionali) rappresentò il superamento della linea d’ombra verso la consapevolezza di una più compiuta maturità politica. 
Giovan Battista Scalfati nacque, da illustre ed influente famiglia, a Nocera de’ Pagani, in Principato Citeriore, il 13 maggio 1712 e vi morì il 24 ottobre 1804. Figlio del Magnifico don Bartolomeo e di donna Prudenza Scalfati, alla nascita gli fu imposto il nome di uno dei sette fratelli del padre che insieme a don Giuseppe, don Nicola, don Gennaro, don Fabio, don Domenico e donna Angela, componevano la numerosa prole di don Francesco Scalfati e donna Francesca Ferrigno. Primo di quattro figli, Giovan Battista – “patrizio nocerino” per diritto di primogenitura – ebbe un fratello, don Matteo, e due sorelle, donna Teresa e donna Felicia. A soli diciassette anni, il 13 settembre 1729, Giovan Battista insieme al fratello Matteo, venne nominato erede universale dell’intero asse patrimoniale del magnifico don Giuseppe Scalfati, fratello del padre morto senza lasciar figli. Benché fosse dottore in Legge, Scalfati stesso affermava che “l’economia della famiglia era da me amministrata, e per tale motivo non mi si è dato luogo di esercitare alcuna professione”. Si occupò, infatti, della gestione dei beni di famiglia rappresentati da notevoli possedimenti terrieri, case in città, vigne, oliveti, campesi, selve, una cava di pietra e l’intera montagna di Fiano, nei pressi di Nocera, demanio dell’Università di Pagani, “di circa 36 moggia […] verso il distretto di Sarno”. Il ruolo preminente della famiglia Scalfati nella società nocerina era sinonimo di influenti relazioni sociali, di funzioni determinanti all’interno della struttura organizzativa del potere cittadino e dei relativi centri decisionali della politica locale. Scalfati era, dunque, espressione del sistema patrizio cittadino e figura di spicco nello spazio politico urbano. Fu il maggior contribuente dell’Università di San Matteo: prestavano servizio presso la famiglia un Cappellano privato, un precettore per i figli e un cocchiere; i beni erano costituiti dalle proprietà di cui innanzi si è detto. Vari legati pii obbligavano la famiglia: primo fra tutti il beneficio di San Carlo eretto nella Chiesa di San Matteo e altri addetti alla Cappella di San Carlo “situata sotto la casa palaziata dei Signori Scalfati”. Le attività economiche relative alla gestione delle cospicue proprietà, garantivano notevoli guadagni: dalla vendita di legname della montagna di Fiano al vino e agli altri prodotti agricoli, oltre alle rendite annuali derivanti dai possedimenti demaniali. Dal matrimonio con la nobildonna di origine spagnola donna Antonia d’Açevedo […] nacquero “molti figli, cioè cinque maschi, e cinque femine”: Bartolomeo, primogenito, Tenente aggregato nel Battaglione degli Invalidi; Gennaro; Luigi, sacerdote secolare e cappellano della Real Cappella; Domenico, frate  dell’ordine dei Padri Predicatori e Maestro di filosofia nel Seminario di Benevento; Francesca e Teresa, religiose coriste nel Monastero di Sant’Anna di Nocera; Rosa, corista nel Monastero della Carità. Altre due figlie morirono “in età adulta” dopo aver preso i voti; una di esse “ha finito i suoi giorni nello stato di pazzia” sei mesi dopo la professione. Tra i beni dotali della moglie, Antonia d’Açevedo, vi era una casa palaziata composta da più appartamenti a Napoli, nel quartiere della Taverna Penta (nei Quartieri Spagnoli, a ridosso di via Toledo, attualmente via Emanuele De Deo al quale fu intitolata la strada sul finire del secolo XIX). 

Nella Capitale del Regno Giovan Battista dimorò con la propria famiglia nella casa alla Taverna Penta allorquando i figli “avevan bisogno di educazione [e] si giudicò savio consiglio di situare in Napoli tutta la mia famiglia”. A Napoli Scalfati si misurò con il dinamismo intellettuale e con l’effervescente clima culturale della Capitale dando prova del proprio talento di saggista, di riformatore e di cultore della storia del Regno come è annotato dall’editore Gravier nella ristampa della cinquecentesca Istoria delle Cose di Napoli di Gregorio Rosso. Nella Capitale lo studioso nocerino pubblicò le proprie opere sul “Giornale Enciclopedico del Regno di Napoli”, mensile fondato e diretto da un altro intellettuale meridionale, originario di Piaggine, Giuseppe Vajro Rosa. L’impegno riformatore di Giovan Battista Scalfati, l’attitudine agli studi filosofici, giuridici ed economici rappresentarono l’essenza della propria esperienza umana, il valore aggiunto alla crescita intellettiva poiché “l’educazione […] procede con maggiore lentezza, ed incontra maggiori ostacoli, trattandosi di poter rendere abili gli uomini all’adempimento dei doveri sociali, specialmente tra le famiglie distinte, gl’individui delle quali debbono cavalcare impieghi della civil società, per i quali si richiede non solamente la volontà emendata, e perfetta, ma parimente l’intelletto culto, ed illuminato. E chi mai ignora quanto sia ardua impresa l’acquisto delle scienze, le quali sono di assoluta necessità per l’esercizio degli impieghi sociali”. In ossequio a tali princìpi, Scalfati si adoperò per garantire un’adeguata istruzione ai propri figli: “con questi principj io ho procurato con tutto l’ardore di rendere i miei figliuoli scienziati; e per far eseguir questo disegno ho procurato di far loro apprendere non solamente la scienza propria per ciascuna professione, ma primieramente quelle, che sono necessarie per la perfezione dell’uomo sociale”. Le traversie famigliari rappresentarono per Giovan Battista Scalfati ricorrente motivo di meditazione e di apprensione. Bartolomeo, suo primogenito, entrato nel corpo dell’Artiglieria “il quale essendo corpo facoltativo richiede la cognizione di molte scienze”, si distinse come “uno de’ migliori officiali di detto corpo, e giunse a cavalcare il grado di Tenente” di stanza a Gaeta prima, successivamente a L’Aquila e a Palermo. Ottenuta una promozione al grado di Capitano, “senza poterne penetrar la ragione, egli il ricusò. E come tale rinuncia fu giudicata effetto di pazzia, e scempiaggine del medesimo: per tal motivo si dovette giuridicamente esaminare dal comandante del corpo lo stato di questo soggetto, e dopo quattro mesi di informo, e di esame fu sollecitamente decretato, che egli era inatto, e perciò escluso dal corpo dell’Artiglieria, e destinato nel Battaglione degli Invalidi, ritenendo l’istesso grado di Tenente col soldo di docati nove al mese, i quali furono dati per mera grazia, mediante le mie suppliche presentate al Re, ed i meriti di mio fratello”. Sconfortato per la triste vicenda che coinvolse il primogenito, Scalfati manifestava la propria amarezza ammettendo che “Don Bartolomeo è destinato a menare una vita oscura, la quale è oggetto di compassione per ogni uomo che considera le vicende umane”. Significativi e controversi nella vita di Giovan Battista Scalfati furono, inoltre, i rapporti con il fratello Matteo. Luigi Scalfati, discendente della famiglia nocerina, nella sua Storia della Famiglia Scalfati. Ramo di Casal del Pozzo. Ramo del Borgo. Ramo di San Matteo. Dalle origini al 1972 (pubblicato a Roma nel 1972) riporta i fatti in modo dissimile rispetto a quanto è emerso dall'esame della documentazione archivistica. In primo luogo la figura di Matteo risulterebbe, per quel che afferma Luigi Scalfati, molto più degna di considerazione rispetto a quella del fratello Giovan Battista. In particolar modo – certamente a causa di contrasti relativi a questioni patrimoniali – i rapporti tra i due fratelli furono oggetto di accese controversie nell’ambiente domestico. Luigi Scalfati riferisce addirittura di una condotta moralmente riprovevole di Donna Antonia d’Açevedo. Afferma, perfino, Luigi Scalfati che “la condotta, pare, non del tutto irreprensibile di Antonia, peraltro neanche contrastata col dovuto rigore dal marito Giovan Battista, sempre immerso nei suoi studi scientifici e filosofici, produsse un intiepidimento dei rapporti tra la famiglia di costui e quella del fratello Matteo, sì da consigliare una divisione financo dei beni terrieri notevolissimi”. A ciò si aggiunga il fatto che Luigi Scalfati ignorasse l’esistenza della numerosa prole di Giovan Battista e Antonia tanto che nella sua Storia riferisce semplicemente che Giovan Battista “sposò la nobile Antonia d’Açevedo di stirpe spagnola ed ebbe un unico figliuolo Bartolomeo, col quale si estinse il suo ramo”. Queste considerazioni farebbero propendere per un ridimensionamento della vicenda umana e intellettuale dell'Autore nocerino quasi che la sua figura e la sua complessiva vicenda, fossero state intenzionalmente consegnate all'oblio dai suoi stessi congiunti. Il Testamento di Scalfati, redatto dal notaio Francesco Antonio Caso, conduce in un’altra direzione e rivela particolari inediti relativi ai rapporti famigliari, alla gestione delle proprietà e ai propositi di Giovan Battista maturati durante il corso della sua esistenza. Nell'atto contenente le ultime volontà, l'Autore affermava che “convien confessare che donna Antonia mia moglie era una donna timorata di Dio, ed in tale stato si ha fatto un preciso dovere di educare con tutta l’esattezza, e rigore le figliuole femine al numero di cinque”. Giovan Battista, come già detto, governò l’economia della famiglia, mentre Matteo “per non essere peso alcuno […] giudicò si dovesse impiegare, come realmente fece con applicarsi da principio alla professione di Paglietta, e quindi mutato pensier rivolse l’animo allo stato militare, e si comprò l’impiego di Capitano di Fanteria, nel quale impiego, par che la cultura de’ suoi talenti rimaneva inutile: fu per mio consiglio indotto a passare nel corpo dell’Artiglieria. Questo passaggio ebbe il suo effetto per opera mia, impiegando i maneggi dello spirito e della borsa”. Le esigenze economiche di Don Matteo Scalfati furono, pertanto, sempre sostenute dal fratello che, secondo il costume dell’epoca, provvedeva al “decoro del suo mantenimento, giacché così la carrozza, come la servitù era a lui consagrata”. L’ingente patrimonio della famiglia Scalfati, in sostanza, era interamente gestito da Giovan Battista in quanto primogenito. Tuttavia, il 13 febbraio 1765 “esso Don Matteo chiamò la divisione del patrimonio, e prese per moglie [Donna Anna Elisabetta]” figlia del Maresciallo Giuseppe Von Schörn e della nobildonna nocerina Maria de’ Vincenzi. In seguito alla divisione del patrimonio, si verificò in famiglia una temporanea difficoltà finanziaria dovuta al concreto dimezzamento del patrimonio determinato dall’‟operazione degli stessi miei Domestici, i quali per i loro proprj vantaggi mi avevano voltata la spalla; sicché debbo esclamare: altitudo divitiarum sapientia et scientia Dei”. In realtà, l’anzidetta divisione del patrimonio non impedì a Giovan Battista Scalfati di continuare a mantenere un tenore di vita elevato per sé e per i congiunti, sia per sostenere dignitosamente i figli maschi e garantire loro un'appagante collocazione sociale, sia per le monacazioni e le relative quote dotali a favore delle figlie. All’interno della struttura sociale nocerina d'ancien régime, Scalfati si distinse per la sua manifesta autorevolezza: importante punto di riferimento culturale, osservatore scrupoloso della realtà locale, sostenitore di idee innovative, esperto di diritto, di filosofia e di economia, coinvolto, dunque, a pieno titolo nella temperie culturale del suo tempo e del suo spazio. Sentì forte l’esigenza di scrutare il mondo per ascoltare e condividere le parole del “signor Hume”; comprese la necessità di spaziare nell’universo culturale europeo per coglierne gli elementi innovativi potenzialmente utili alla realtà nocerina e sinceramente ispirati ai principi dell’interesse generale e della pubblica utilità. Ottantatreenne nel 1799, nei sei mesi repubblicani a Nocera de’ Pagani, fu attivista, collaboratore delle Municipalità, referente locale del Governo Provvisorio di Salerno. Nella sua abitazione nocerina, difatti, si davano convegno i municipalisti che avevano aderito alla Repubblica e suo figlio Gennaro ricopriva incarichi amministrativi in città insieme agli altri esponenti filorepubblicani. Giovan Battista Scalfati finì i suoi giorni nella casa natale, all’età di novantadue anni, il 24 ottobre 1804. Il 20 maggio 1802 aveva provveduto a redigere le sue ultime volontà, sigillate e consegnate al notaio Francesco Antonio Caso. Il 16 novembre 1804, ad un mese circa dalla sua morte, il figlio Gennaro, nella “casa palaziata Paterna sita in ristretto di questa riferita città di Nocera, luogo chiamato casa Scalfati”, richiese l’apertura del testamento. Don Gennaro Scalfati era stato designato erede universale e particolare di tutti i beni della famiglia di qualunque natura e qualità; la semplice legittima spettava, invece, agli altri figli maschi e vari vitalizi erano assegnati alle figlie monache. L’elencazione puntuale dell’asse ereditario era stato trascritto, per volontà di Giovan Battista Scalfati, “mediante istromento rogato per mano di Notar Don Rogiero Benevento nel giorno 28 febbraio corrente anno 1802”. Ancora in vita, Scalfati dispose che “seguita sarà la mia morte, il mio corpo sia seppellito nella sepoltura gentilizia di mia famiglia esistente nella chiesa di San Francesco de’ Padri conventuali di questa Città di Nocera e che le mie esequie siano fatte senza alcuna pompa, ma come sogliono pratticare i poveri cittadini di questa Città”. Per l’Autore nocerino nulla costituiva certezza maggiore della morte, nulla di più incerto riguardo alla sua ora. 
Come ogni uomo della sua epoca, aveva affidato l’anima a Dio con enfasi maggiore di quanta ne utilizzasse per trasmettere i propri beni agli eredi. In realtà, ambiva a gestire il proprio trapasso dalla vita terrena a quella eterna con i conforti della religione, circondato dall’affetto della famiglia e dal rispetto dell’intera comunità, affinché dopo la morte l’anima raggiungesse l’agognata pace. Il mondo culturale di Scalfati percepiva ancora la morte come il momento più solenne dell’esistenza umana, grande egualizzatrice, un’anticipazione del giorno del giudizio. La meditazione del de cuius circa la certezza cristiana che l’anima fosse più degna e più nobile del corpo, emergeva a chiare lettere in tutti gli atti mortis causa esaminati dalla studiosa. Anche Scalfati, immaginando il proprio trapasso, rifletteva sull’immortalità dell’anima e sulla caducità della vita terrena: “la filosofia m’insegna, che l’anima umana è immortale, ed il Vangelo mi rappresenta in quel gran giorno Gesù Cristo, che chiama i buoni a godere il Regno eterno, e condanna i malvagi al fuoco eterno. Questi pensieri io l’applico a me stesso e considero questa gran vicenda, alla quale debbo essere destinato io medesimo, come vi è destinato tutto il genere umano; e tal pensiero mi riempie di spavento. L’Apostolo Paolo dicea: mihi nihil conscius sum, sed non in hoc justificatus sum”. 
Sgomento come ogni uomo al pensiero della morte, Giovan Battista Scalfati ha, tuttavia, consegnato alla Storia la testimonianza di una vita coerente, intensa, consacrata agli studi, alle riflessioni sul suo tempo storico e sul suo mondo. Esponente di un ceto – quello patrizio cittadino – legato al privilegio di nascita, seppe condividere le scelte coraggiose che le contingenze imponevano e, convinto che un nuovo corso politico-istituzionale avrebbe spianato la via al progresso, approvò le scelte repubblicane nei sei mesi rivoluzionari del 1799. La sua biografia, di cui si è dato brevemente conto, rivela le angosce e gli affanni di un uomo che mise principalmente in gioco se stesso e la propria credibilità di studioso, affinché restasse di sé qualcosa di significativo e apprezzabile.

BIBLIOGRAFIA
Sulla figura e sul ruolo svolto dall’Autore nocerino rimando a C. PINGARO, Il filosofo profondo. Giovan Battista Scalfati, patrizio di Nocera (1712-1804). Cultura e dibattito riformatore nel regno di Napoli, Libellula Edizioni Universitarie, Tricase, 2010.

giovedì 18 ottobre 2018

Personaggi. 19. Raffaele Danzi

Raffaele Danzi nacque a Potenza nel 1818. Figlio di uno “speziale”, ben presto iniziò a lavorare, prima come aiuto tipografo e poi come restauratore di statue e "figurine”. A ventidue anni sposò Antonia Maria Uva, da cui ebbe tre figli.
Danzi era, innanzitutto, uno spirito ribelle, repubblicano ed anticlericale, che collaborava a fogli volanti con poesie in dialetto improntate ad una satira arguta e intelligente. Che non fosse solo un semplice poeta vernacolare lo prova il suo rapporto con intellettuali suoi conterranei, tra cui Luigi Grippo, Nicola Sole e Leopoldo Viggiani. Proprio Grippo e Viggiani, nel 1879, pubblicarono il suo libello Poesie a dengua putenzesa (Potenza, tipi Santanello, 1879; 49 pp.), nelle cui 33 poesie Danzi denunciava la miseria dei suoi concittadini.
E in dignitosa povertà il poeta potentino morì, il 2 maggio 1891, all'età di 73 anni.
Vent'anni dopo, Michele Marino, nel 1912, curò un altro libretto di sue poesie (Potenza, Tip. Garramone e Marchesiello, 1912; 49 pp.), in cui ricordava il vernacoliere:
Pregato dal Sig. Giuseppe Corrado, nipote di Raffaele Danzi, ho ordinato e corretto alcune delle poesie dialettali di lui, le quali ebbero gran voga a Potenza, tanto che non è difficile imbattersi, dopo quaranta anni, in persone che le ricordino quasi tutte a memoria. La maggior parte di esse fu raccolta nel 79 in un volumetto edito con i tipi Santanello: poche altre sono posteriori e videro la luce su foglietti volanti.
Di sentimenti conservatori, Danzi riesce più immediato non quando rievoca le vicende risorgimentali, ma, piuttosto, quando rappresenta, con accenti umili e immediati, la percezione che di esse si aveva nelle cuntane e nei sottani in cui i potentini vivevano quotidianamente vicende di miseria e difficoltà nel "campare" la giornata. Egli, in effetti, che rappresenta l'anima popolana della città capoluogo, più che poeta è un bravo verseggiatore, che, con i suoi componimenti, risulta un utile complemento alle vicende e agli usi raccontati dal contemporaneo Raffaele Riviello.

domenica 14 ottobre 2018

Le “piccole patrie” e la (possibile) ricostruzione dell’identità nazionale

A proposito di A. BISTARELLI (a cura di), La storia della storia patria. Società, Deputazioni e Istituti storici nazionali nella costruzione dell’Italia, Roma, Viella, 2012, pp. 324 (in "Bollettino Storico della Basilicata", 28 (2013) ). 

L’idea di Nazione è un leitmotiv che ha attraversato tutte le celebrazioni, più o meno calibrate, del centocinquantenario dell’Unità d’Italia. Eppure, pochi sono stati gli incontri che hanno ricostruito e letto il contributo delle “piccole patrie“ locali dal punto di vista culturale. Si potrebbe, anzi, dire, che nel più generale contesto nazionale dell’«italianità» - citando il titolo di un interessante volume di Silvana Patriarca del 2010 -, il contributo culturale dell’associazionismo storico locale postunitario è stato poco esplorato. Eppure, partendo dalla Deputazione di storia patria sabauda, voluta da Carlo Alberto nel 1833, alla Giunta centrale per gli studi storici del 1934, passando per l’Istituto storico italiano creato nel 1883, varie istituzioni storiche furono preposte dallo Stato alla raccolta, interpretazione e tutela delle fonti e dell’identità storica locale. Esse hanno svolto un ruolo centrale nel processo di unificazione culturale del Paese, costantemente animati, come sottolinea il curatore del volume, dalla tensione tra libera ricerca ed uso politico della storia.
Il volume in esame in queste riflessioni riflette proprio, da vari punti di vista, su queste vicende, a partire dal saggio introduttivo di Paolo Prodi (Le ragioni di un convegno, pp. 9-14), che, introducendo il convegno del 17-19 maggio 2011 tenutosi alla Venaria Reale di Torino, evidenzia come Deputazioni e Società storiche abbiano avuto un ruolo forte di traino identitario, sia a livello geopolitico che sociale. Nel primo caso, esse hanno permesso «una forte attenzione alla storia locale, degli antichi Stati italiani e delle loro componenti e nello stesso tempo lo sviluppo di una coscienza nazionale; dal punto di vista sociale perché ha permesso nelle nostre cento città per la prima volta un dialogo tra diverse esperienze divaricanti dopo la conclusione dell’epopea risorgimentale» (p. 9).
Dal canto suo, Andrea Merlotti, parlando di Sfide e difficoltà di una celebrazione (pp. 15-21), quella del 2011, appunto, riprende i temi di Prodi, ma, nel ricostruire il centocinquantenario dell’Unità, rileva come il tema della rievocazione e della memoria dell’Unificazione si riconduca al tema di una possibile crisi del «circuito virtuoso fra storia locale, coscienza nazionale e valori civici» innescati dalla rete delle Deputazioni e Società di Storia patria (p. 21): ricostruire, appunto, le vicende di fondazione, evoluzione e ricerca degli Istituti storici nazionali nel corso di centocinquant’anni di storia unitaria deve, secondo Merlotti, riattivare questi circuiti per ricostituire dal basso una civicness più radicata.
In questa direzione si muove la prima sezione, “Istituti nazionali e primo cinquantenario” (pp. 23-114), nella quale sono compresi i contributi di Massimo Miglio (Dall’unificazione alla fondazione dell’Istituto storico italiano, pp. 25-44), Romano Ugolini (Il Risorgimento diventa storia. La genesi dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, pp. 45-58), Gian Maria Varanini (L’Istituto storico italiano tra Ottocento e Novecento. Cronache 1885-1913, pp. 59-102), Edoardo Tortarolo (I convegni degli storici italiani 1879-1895. Qualche nota documentaria, pp. 103-114). 
La seconda sezione esplora le vicende de “Le Deputazioni pre-unitarie” (pp. 115-186), partendo dalla Deputazione torinese, la cui evoluzione è esaminata da Gian Savino Pene Vidari (pp. 117-144), alla Società Ligure di Storia Patria, oggetto dell’analisi dell’infaticabile Dino Puncuh (Dal mito patrio alla “storia patria”. Genova 1857, pp. 145-166), all’analisi di Fulvio De Giorgi sull’organizzazione degli studi storici tra centralizzazione e autonomie tra Otto e Novecento (pp. 167-186). È pur vero che molti Stati regionali (cosa, questa, poco evidenziata in alcuni contributi) non avevano identità nazionali, configurandosi, piuttosto, come “Stati mosaico” – è il caso di Venezia, quasi contrapposta al suo territorio, o di Genova come «società mercantile», in cui lo sviluppo della “genovesità”, per così dire, era maggiore nelle comunità degli emigrati, o ancora nello sviluppo delle periferie pontificie contrapposto a Roma, “appiattita” sulla dimensione di Città del Papa. In altri casi (come quelli della Toscana, della Lombardia o del “capofila” Piemonte, come evidenziato da Pene Vidari), l’idea di “nazione” passava attraverso quella di «integrazione amministrativa», già sviluppatasi nel corso del Settecento riformatore e proseguita con maggiore decisione nel corso del XIX secolo.
Interessante, nell’ambito di questa discussione, risulta la sezione nella quale vengono ricostruiti assetti e vicende delle Deputazioni dopo l’unità (pp. 187-264): Renata De Lorenzo ha ripercorso la storia delle Deputazioni e Società di storia patria dell’Italia meridionale (pp. 189-232); Gilberto Piccinini, La Deputazione di storia patria per le Marche nei primi centocinquant’anni di attività (pp. 233-252) e, infine, Carlo Capra si è occupato de La Società storica lombarda: origini e vicende (1873-1915) (pp. 253-263). Eppure, questa sezione appare la meno sviluppata per informazioni e suggestioni per una definizione del senso attuale degli Istituti storici locali, nonostante nello stesso convegno di Venaria presidenti e soci delle diverse Deputazioni avessero portato i loro contributi, spesso di notevole rilievo (nonostante il curatore li citi in nota nelle sue considerazioni conclusive). Un’apposita sezione con i contributi della tavola rotonda avrebbe di certo approfondito il ruolo di Deputazioni e Società Storiche, specie quelle meridionali, comunque ben delineato nelle sue linee essenziali da Renata De Lorenzo, Presidente della Società Napoletana di Storia Patria. Se ne ricava, in un certo qual modo, un quadro appiattito sulle grandi Società Storiche napoletana e lombarda, tralasciando, nella mole di informazioni, che le Deputazioni e le Società locali hanno contribuito con studiosi ed opere di notevole rilievo. In effetti, il tema delle «piccole patrie», in funzione anticentralista, era già stato portato avanti da parte delle Società storiche, nel primo ventennio unitario, in special modo da storici pugliesi e napoletani: esso avrebbe, anzi, avuto consacrazione e superamento nella Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata di Giacomo Racioppi, che riassunse, appunto, il tema, pur scrivendo, per così dire, “fuori tempo massimo” e nella grandiosa Storia del Regno di Napoli di Benedetto Croce, che nel 1924 volle, per citare le parole di Giuseppe Galasso nella prefazione alla ristampa del 1992, ricostruire «la storia di un paese identificata con quella della nazione che vi si formò [...], lo stretto intreccio con la storia italiana» e quella europea.
La sezione conclusiva del volume, “Gli Istituti storici stranieri a Roma” (pp. 265-300), comprende i contributi di Rudolf Lill (Gli Istituti storici austriaco e prussiano a Roma, pp. 267-284) e di Jorge García Sánchez (La Real Academia, la Escuela Española e Rafael Altamira: esempi della rappresentazione culturale della Spagna in Italia, pp. 285-300). In realtà, pur apparendo quasi avulsa dal tema del volume, essa risulta di un certo interesse nel ricostruire l’intreccio tra storia nazionale e storia “globale” sul territorio del nostro Paese, con “epicentro” nella capitale.
Le riflessioni conclusive del curatore degli Atti, Agostino Bistarelli (La storia patria oggi, pp. 301-309), pongono alcune domande cruciali che sottendono il volume, senza, tuttavia, essere quasi mai esplicitate dopo le affermazioni introduttive di Prodi. Quale sarebbe, oggi, il senso di questi Istituti per ristabilire il senso identitario di un’Italia troppo divisa e sradicata dal suo essere? È ancora possibile un uso politico “buono” della Storia? 
Il recupero della memoria storica, tra identità sommerse e identità recuperate lungo questi centocinquant’anni di vita unitaria, resta, oggi più che mai, compito non delle grandi istituzioni centrali, quanto, piuttosto, delle Società Storiche e delle Deputazioni: l’ancoraggio sul territorio, il legame con le tradizioni e l’identità locale, in rapporto con i contesto più generali, permettono, infatti, a queste istituzioni di recuperare una dimensione civile della Storia. La progressiva attenzione verso le province operata dalle istituzioni locali, in effetti, corrisponde all’allargarsi del rapporto tra centro e “patria locale” e restituisce una dimensione più ampia alle appartenenze regionali, che in età preunitaria corrispondevano a diverse “nazioni”. Appunto, nazioni come prodromi delle “identità locali” ed espressione di un sentire comune, una costruzione in cui si riconoscessero i ceti dirigenti che, dopo l’azione politica risorgimentale, si rivolsero alle carte per ricostruire il formarsi della nazione a partire dalle periferie, prima che dal centro. 
Il nation building operato anche da Deputazioni e Società storiche, dunque, smentirebbe il mito negativo secondo il quale l’Italia non avrebbe avuto momenti di costruzione nazionale se non dopo l’Unità: questi Istituti, in effetti, contribuirono e possono ancora contribuire a costituire una presa di coscienza, recuperare il percorso postunitario secondo il quale la coscienza storico-identitaria passava attraverso il collante rappresentato dallo Stato unitario, che avrebbe amalgamato, a livello sociale e strutturale, le “piccole nazioni”. Oggi il problema è, come efficacemente premette Simonetta Buttò nell’introduzione al volume, che questi Istituti si aprano al nuovo, ai giovani studiosi, alle nuove tecnologie, non confinandosi più «nella dimensione, tutto sommato passiva, della conservazione del patrimonio e della sua fruizione, della fornitura di quello che viene richiesto, ma guardando avanti alla produzione di cultura e alla sua trasmissione» (p. 8). È questo, dunque, il senso di Società, Deputazioni e Istituti storici oggi, ossia l’uso politico della Storia nel senso più nobile: contribuire a ricostruire l’identità nazionale attraverso il coinvolgimento, una volta ancora, delle piccole patrie locali, dei “mattoni” base dello Stato, i cittadini. Uscire dal chiuso dell’Accademia e parlare, ancora una volta, ai cittadini con un linguaggio più accessibile potrà permettere al mestiere di storico di avere ancora un senso civico, quale lo intesero personaggi di rilievo come Tabacco, Falco, Bonghi, Capponi, Cipolla, Schipa, Croce, Racioppi, Fortunato.

giovedì 11 ottobre 2018

domenica 7 ottobre 2018

La Puglia. 1. Foggia napoleonica (Roberta Sassano)

Nel 1800 Foggia, città regia, contava circa 17000 abitanti, secondo le stime del Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli di Lorenzo Giustiniani ed era la sede della Regia Dogana della Mena delle Pecore, istituita da Alfonso d’Aragona nel 1447, perciò rappresentava un centro nevralgico per l’economia di tutto il Tavoliere. L’arrivo dei Francesi naturalmente portò dei cambiamenti nel capoluogo dauno, che finirono anche per incidere sui suoi ceti e gruppi dirigenti.  Il 25 febbraio 1806 giunsero nella città due reggimenti francesi, guidati dai generali Duhesme e Dombrouchy, con molti capi di battaglioni. Il generale Dombrouchy venne con il titolo di Governatore delle Puglie, mentre Foggia poco dopo, il 19 marzo, già accettava Giuseppe come suo legittimo sovrano, festeggiandone il nome.
Con la legge del 21 maggio 1806, Giuseppe Bonaparte abolì l’istituzione doganale e le terre demaniali furono concesse a colonia perpetua: l’ultimo bando emesso dall’ultimo Presidente della Dogana, Giuseppe Gargani per annunciare la censuazione, è del 26 maggio 1806. Il primo agosto il Tribunale della Dogana cessava le sue funzioni, il giorno seguente fu abolita la feudalità e il primo settembre fu disposta la divisione non solo delle terre demaniali, ma anche di quelle baronali, ecclesiastiche e comunali.
Altre due questioni importanti furono quelle relative alla scelta del capoluogo dell’Intendenza e alla sede del tribunale, che interessò le due città di Foggia e Lucera, diventate protagoniste di un’acerrima contesa.  Dopo la soppressione del Tribunale della Dogana, Foggia si aspettava una compensazione di questa perdita. Nell’agosto 1806 la città venne quindi proclamata capoluogo dell’Intendenza al posto di Lucera, nonché anche capoluogo di distretto nel dicembre dello stesso anno. La scelta fu dettata anche e, soprattutto, dal ruolo economico ora rivestito dalla città e dalla sua rilevanza demografica, dato che essa contava nel 1806 più di 19000 abitanti. 
Se la decisione dell’Intendenza foggiana venne tutto sommato assorbita senza grandi proteste dalla vicina Lucera, più travagliata fu la questione della scelta della sede del Tribunale, che si protrarrà per svariati anni e si concluderà a vantaggio di Lucera, mentre Foggia rimarrà priva del tribunale per ancora più di un secolo, fino al 1923.      
Cambiamenti significativi si verificarono anche negli assetti istituzionali della città. In base alla legge del 20 maggio 1808, per la città di Foggia, comune di prima classe, i decurioni non superarono mai il numero di 30, mentre poterono accedere a tale carica coloro che avessero avuto una rendita di almeno 24 ducati annui o avessero esercitato una professione liberale, ponendo così fine alla rigida separazione cetuale dell’ancien régime.     
Analizzando le liste degli eleggibili e gli elenchi dei decurioni degli anni 1808, 1812 e 1816, presenti nel fondo dell’Intendenza dell’Archivio di Stato di Foggia, si possono trarre dati interessanti riguardo all’articolazione socio-professionale dei ceti dirigenti della città. Per quanto concerne il 1808 si può osservare come il possesso di una rendita fosse ancora fondamentale per accedere alle cariche amministrative, mentre l’esercizio di professioni liberali era invece considerato un requisito d’importanza minore rispetto alla proprietà.     
Per il 1812 invece a prevalere non sono più i proprietari, come per i decurioni del 1808, ma i patrocinatori, cosa che potrebbe essere indice di un maggior accesso alle cariche amministrative di una borghesia emergente legata al mondo delle professioni e non più solo alla proprietà.  Infine, per il 1816, si può notare come nuovamente prevalgano i proprietari rispetto agli esercenti professioni liberali, probabilmente in virtù degli effetti della recente Restaurazione borbonica.                 
A Foggia molti dei protagonisti della vita politica cittadina di fine Settecento-inizi Ottocento continuarono nel Decennio ad occupare cariche e pubblici impieghi nei diversi livelli del sistema amministrativo. E’ il caso dei Filiasi, degli Zezza, dei Celentano, dei Freda, dei De Luca e dei Cimaglia, per citare gli esempi più significativi di famiglie che durante tutto il Decennio, ebbero ancora un ruolo preponderante nell’amministrazione cittadina.      
E’ apparso quindi evidente che le nuove norme del periodo napoleonico abbiano rappresentato una forte apertura al ceto borghese, soprattutto permettendo anche agli esercenti professioni liberali di entrare nelle liste degli eleggibili, dando vita così ad un’amministrazione organizzata e formata da uomini competenti rispetto alla rigida divisione cetuale dell’ancien régime. E’ però altrettanto vero che questo cambiamento fondamentale non si verificò all’improvviso, tout court, nel Decennio, ma affondò le sue radici negli anni Venti-Trenta del Settecento, quando a Foggia incominciò a svilupparsi una forte borghesia mercantile, costituita soprattutto da famiglie forestiere, trasferitesi in città in quel periodo, che, forti del loro potere economico, chiesero poi rappresentanza anche nell’amministrazione cittadina, nel Reggimento, riuscendola così ad ottenere.            
Le riforme politico-amministrative che caratterizzarono il Decennio a Foggia quindi non generarono una rottura nella composizione delle èlites, ma piuttosto una continuità, accompagnata però da nuovi innesti, provenienti soprattutto dal mondo delle professioni. Questi, tuttavia si affiancarono, ma non sostituirono le grandi famiglie foggiane del passato, che continuarono a giocare un ruolo fondamentale anche nel Decennio napoleonico. 

giovedì 4 ottobre 2018

La Basilicata contemporanea. 27. I corrispondenti di Giustino Fortunato. IV P-S

Pallottino Luigi
Pallottino Vincenzo
Colonnello, segretario di Marcello Soleri e fratello di Francesco, sindaco di Rionero alla fine degli anni Trenta del Novecento.
Pedio Edoardo
Piacentini Gaetano
Pieri Piero
Pietrarota Domenico
Pintor Fortunato
Plastino Vincenzo
Prezzolini Giuseppe
Provenzal Dino
Ricci Umberto
Ridola Domenico
Rigillo Michele
Rije Vincenzo
Ripandelli Gennaro
Sindaco di Melfi nel 1908-9.
Rispoli Ciasca Carolina
Robe Francesco
Presidente dell'Unione Democratica Progressista di Lavello.
Rosselli Nello
Roux Luigi
Rusconi Ettore
Ruta Enrico
Sacchi Ettore
Salandra Antonio
Salvemini Gaetano
Scaglione Emilio
Senise Tommaso
Serpieri Arrigo
Severini Federigo
Silva Pietro
Solimena Vincenzo
Solimene Domenico
Solimene Giuseppe
1879-1962. Storico locale lavellese, autore di monografie sulla chiesa vescovile e alcuni personaggi del suo paese, nonchè di drammi storici come Tempeste feudali (1924).
Sonnino Sidney
Stringher Bonaldo

Le perle lucane. 3. Lagopesole

«Lo stile somiglia a quello di Castel del Monte presso Andria, ma tranne pochi ornamenti alle finestre, archi di porta e cornicioni non esis...