venerdì 6 settembre 2013

Matera. 5. L'enigma Eustachio da Matera

Nato nel XIII secolo, probabilmente a Matera, Eustachio fu di fede ghibellina. Il suo nome non è documentato in alcuna fonte contemporanea, ma l'agostiniano Dionigi da Borgo Sansepolcro (morto nel 1342), chiamato a Napoli alla corte di re Roberto d'Angiò nel 1338, nei suoi Commentarii in Valerium Maximum fornisce la più antica testimonianza dell'esistenza di Eustachio (qualificato di "venosino" certamente per le sue attività svolte a Venosa documentate da fonti più tarde), autore di un poema intitolato Planctus Italiae: "Eustachium Venusinuni, qui sub nomine poétae introducitur et Plantus Italiae nominatur". Dionisio riporta poi, in margine a Valerio Massimo (II, 2, 3), sette distici elegiaci di E. in lode di Taranto.
La diffusione nel sec. XIV dell'opera di Eustachio è testimoniata in modo indiretto anche da Giovanni Boccaccio, che dagli intellettuali della corte angioina ricevette non poche suggestioni: egli, nella Genealogia deorum gentilium (VIII, 41), riporta infatti una leggenda sulla fondazione di Genova che dice raccontatagli da Paolo da Perugia, il quale a sua volta la avrebbe appresa da un certo Eustachio ("asserit tamen Paulus Perusinus secundum nescio quem Eustachium").
Due fonti del sec. XV, provenienti dall'Italia meridionale, offrono le sole notizie superstiti sulla biografia di E., nonché altri quattro frammenti del suo poema. Si tratta del codice della Biblioteca nazionale di Napoli segnato IX.C.24 e di un codice già della Biblioteca del Seminario vescovile di Potenza. Nel codice napoletano, che è miscellaneo, tra i ff. 96 e 131 è presente un commentario virgiliano, scritto nel 1478 da Berardino di Policastro di Suessa. Il Capasso suppone che si tratti di una copia da un originale della fine del sec. XIV; il Veselovski lo attribuisce, invece, alla metà del XV. Nel libellus sono riportati quattro estratti dal Planctus Italiae di Eustachio, relativi a Napoli (f. 89r), al Cavallo napoletano (ff. 89v-90r), a Messina (f. 116v) e a Taranto (f. 119v-120r). I versi relativi a quest'ultima città concordano (le varianti sono insignificanti) con il testo tradito da Dionigi da Borgo Sansepolcro. Inoltre, al f. 94r l'anonimo autore della raccolta miscellanea cita un "Eustachium quendam" tra gli autori che fornirono al Boccaccio il materiale per la sua Genealogia, mostrando, però, di non conoscerlo.
Il codice di Potenza, proveniente dal convento dei padri conventuali della stessa città, era conservato alla fine del sec. XIX nella Biblioteca del Seminario vescovile. È da ritenersi perduto perché sono risultati inutili tutti i tentativi fatti per rintracciarlo. In esso era compresa una poesia latina, un frammento di trentaquattro versi del Planctus Italiae, relativi alla distruzione di Potenza, avvenuta dopo la battaglia di Tagliacozzo (23 ag. 1268), in cui Eustachio ricorda come i Potentini piombassero a tradimento sui baroni partigiani degli Svevi con l'intento di ingraziarsi re Carlo d'Angiò, e come nonostante quest'atto di tradimento le mura di Potenza fossero abbattute egualmente, ed i partigiani dell'Impero liberati grazie ad un'azione improvvisa condotta da alcuni cittadini di Venosa, che era filosveva, e da due cavalieri, Riccardo di Santa Sofia ed Enrico di Castagna:

Allora il furore del popolo potentino travolse tutti
quelli che portavano i vessilli dell’aquila imperiale.
La città di Potenza fu generata dai boschi lucani, 
e sostenuta dalla tua protezione, o San Gerardo.
Fornita di monti e di prati a perdita d’occhio
coltiva campi fecondi di greggi ed armenti.
Austera di stirpe lombarda e potente di coloni
rifulge più ricca dei suoi vicini.
Udite le furie minacciose di stragi del vincitore,
impazzì il popolo, in un turbine la turba si precipita.
Con questo furore vorrebbe placare l’ira del vincitore,
vendicarsi, fare strage di nobili.
E questo è nulla rispetto al dopo, quando giacque distrutte
le sue mura, in più punita per la sua empietà.
Gugliemo cade e la stirpe Grassinella
E alla caduta della loro casa segue molta rovina.
Viene preso quel Bartolomeo
Che chiama con molti alla rivolta, 
Stretti vincoli stringono i nobili
E conducono tutti i prigionieri nella rocca di Acerenza.
Ma la sorte mutevole diede alterne vicende:
Infatti in compagnia di armati Riccardo di Santa Sofia,
Enrico di Castanea e la coorte venosina
Erano giunti, evento straordinario, ai nemici di Acerenza.
Vedono quindi venire i prigionieri.
All’inizio i capi, entrati in battaglia, 
Decidono di subire il discrimine: uno fugge, un altro muore.
Un soldato con gli alleati rende libero Bartolomeo
E il fato offre un’attesa alla morte incombente.
Allora morì quel Pietro Sapienza di Basilicata, 
Portando in campo l’iniquità della maggior parte della gente.
Viene tradito, e il patto della preziosa amicizia
Dall’oro sciolto. La fede diventa scelleratezza:
Oh quanto grande delitto è il funesto denaro!
I biondi metalli sottomettono anche il cielo al loro prezzo.

In margine ai primi sei versi, e alla fine del frammento, vi erano - secondo la testimonianza di Giuseppe Rendina, autore nel XVIII secolo di una Istoria della città di Potenza - due annotazioni, che rappresentano, allo stato della documentazione, le sole notizie superstiti relative alla biografia di Eustachio. La prima era costituita da cinque versi, in cui si ricordava che Eustachio, nativo di Matera, poi giudice e scriba a Venosa, pianse la conquista della sua "patria". La seconda notizia era costituita da un'altra quartina, in cui l'ignoto autore ricordava che nel 1270, allorché regnava Carlo I d'Angiò, E. temperava le angosce dell'esilio registrando cronisticamente i dolorosi eventi di cui era stato testimone:

Nell’anno milleduecentosettanta,
Regnando il Franco, essendo la sede romana vacante,
Alleviando le pene dell’esilio,
Dettando questi mesti fatti per anno ad uno ad uno.

(trad. di M. T. Imbriani)

FONTE: voce di E. CUOZZO in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1993, vol. 43.

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